Stefano Ceccanti, Il Riformista, 7 IV 2022
“Riflessioni sull’America”
Governo e democrazia, la lezione perduta di Maritain
Il percorso intellettuale di Jacques Maritain rispetto al regime politico degli Stati Uniti d’America, e quindi rispetto a democrazie e pluralismo, è stato descritto da molti autori in più occasioni. Mi sembra che l’esposizione più acuta al riguardo sia quella di Etienne Borne, secondo cui l’esilio in America ha imposto un pensiero più strettamente legato all’impegno e, quindi, meno dottrinario. In questo volume, che rappresenta il terzo dei principali scritti del periodo americano, anzi, siamo proprio distanti anni luce da un approccio dottrinario: come dichiara Maritain nella premessa, si tratta di tre interventi del 1956, riadattati due anni dopo (quattro per l’edizione italiana), che mantengono volutamente un “tono di conversazione per così dire spontaneo”.
Borne valorizza soprattutto il testo che stiamo ora rieditando, perché la sua descrizione puntuale del pluralismo strutturale della società americana, e dell’unità che nasce successivamente, cambia l’asse del pensiero politico di Maritain. “Al termine d’una genesi che è stata laboriosa e lungo la quale… si è lasciato istruire dall’avvenimento e dall’esperienza”, Maritain, osserva Borne, non è più il “filosofo della democrazia cristiana” ma ormai “un filosofo cristiano della democrazia”. Ripercorrendo a questo punto in ordine qualche brano meno scontato delle “Riflessioni”, possiamo partire dall’annotazione di Maritain sul minore peso della storia nell’esperienza americana, che consente una memoria più immediata anche delle basi del diritto comune: «Se per un francese medio la Dichiarazione dei diritti dell’Uomo non è che un vecchio pezzo di pergamena, per voi la Dichiarazione di Indipendenza è come se fosse stata scritta una cinquantina d’anni fa».
Questa consapevolezza delle basi solide del pluralismo americano non porta comunque a ignorare i conflitti del presente, primo tra tutti quello razziale. Maritain elogia infatti Martin Luther King per aver dato vita al «più notevole esempio, che si sia mai visto sin qui in questo Paese, di un possibile ricorso in Occidente, ai metodi gandhiani di non violenza o resistenza passiva», cogliendo quindi il cuore della battaglia politica democratica del decennio successivo. Per Maritain, l’America è soprattutto l’esperienza del pluralismo, fatto di “differenze nazionali, sociali e religiose”: pluralismo sociale “di comunità particolari” e istituzionale (vari Stati “ciascuno con sua propria vita politica, con sua propria legislazione”), che derivano a loro volta da distinte “comunità politico-religiose”. Questo porta, nonostante nei fatti si realizzi «una sempre maggior attribuzione di poteri allo Stato federale, a non simpatizzare con la vera e propria nozione di stato», l’America «si sente più a suo agio con la nozione di comunità».
L’unità deriva chiaramente dal pluralismo che le pre-esiste e che essa rispetta: «Il corpo politico americano è l’unico che sia pienamente ed esplicitamente nato dalla libertà, dalla libera determinazione di uomini, coscienti di voler vivere ed operare insieme, in un compito comune». Nella parte finale della riflessione, Maritain affronta la differenza degli esiti a cui è pervenuto nell’esilio rispetto a quelli di partenza, di “Umanesimo Integrale” del 1936. Il filosofo francese ammette che allora la sua “prospettiva era decisamente europea” e, per quanto impostata su tipi ideali e su un approccio generalista, rivolta alla “gioventù cattolica del mio paese”. È curioso che, nonostante questa discontinuità rivendicata, per molti, specie in Europa, l’immagine di Maritain sia rimasta più vincolata agli anni 30, a un avvicinamento con molte riserve alla democrazia pluralista, che non a quella del trittico americano, molto più capace di aiutarci ad elaborare un pensiero democratico rinnovato, ricco di motivazioni evangeliche ma aperto alle sintesi più innovative con tutti, in un panorama decisamente più pluralista.
Fin qui abbiamo parlato del trittico dei testi principali del periodo americano, tuttavia l’analisi sarebbe incompleta se non parlassimo anche della fortuna che ebbe presso parte del cattolicesimo democratico, in particolare presso le Presidenze della Fuci e delle Acli all’inizio degli anni 90, uno degli scritti minori, uscito nel 1943 su una rivista in francese (La Rèpublique française) edita negli Usa da Maritain insieme al costituzional-comparatista Boris Mirkine-Guetzévtich. Questo testo, pubblicato sempre da Morcelliana nel volume “Per una politica più umana“, si intitola “Potere legislativo e potere esecutivo“. Qui Maritain affronta il tema istituzionale su cui non ritorna esplicitamente nelle “Conversazioni”, perché il fine del saggio è in sostanza quello di capire come l’America può influenzare la rinascita democratica in Francia dopo la parentesi di Vichy, a sua volta legata al fallimento delle istituzioni impotenti della III Repubblica. In realtà, implicitamente, le “Conversazioni” si basano su una valutazione, sia pur implicita, di tipo positivo delle istituzioni americane, ma per capirne bene il senso ci è utile anche quel piccolo saggio del 1943. La domanda da porsi, allora, è perché, però, apparve illuminante solo a inizio anni 90? Perché prima di allora, nel lungo periodo che va dal fallimento della legge a premio di maggioranza nel 1953 fino alla solidarietà nazionale, il cattolicesimo democratico era stato legato a uno schema storicamente fecondo per quel periodo, di allargamento della base democratica verso sinistra per via tutta politica, a istituzioni invariate.
Il concetto di bene comune era stato letto nell’ottica di una democrazia consensuale, di un recupero della frattura del 1947. Tuttavia, al termine di quel percorso, che era stato estremamente conflittuale nella società, nella Chiesa, nel partito della Democrazia Cristiana, dove molto gradualmente era stata accolta la collaborazione prima coi socialisti e poi coi comunisti, quale modello di democrazia andava affermato? Era il tema già posto in modo anticipatorio da Pietro Scoppola e Roberto Ruffilli con l’organizzazione del convegno di Arezzo della Lega Democratica dal titolo “La terza fase e le istituzioni”, svoltosi ad Arezzo nel 1979 e che si andava coagulando con la proposta dei referendum elettorali formulata dal Congresso della Fuci del marzo 1989 a Bari. La riscoperta di quel saggio di Maritain, sia pure di taglio filosofico più che giuridico, contribuì ad aprire le porte ad un diverso paradigma. Maritain, ammiratore del New Deal di Roosevelt, aveva colto con lucidità l’effetto che l’aumento del ruolo dello Stato nell’economia ha nei rapporti tra le istituzioni: se il potere politico deve intervenire in modo più rapido e dettagliato, l’equilibrio classico del rapporto tra poteri tipico dello Stato liberale oligarchico non poteva che spostarsi di più sul Governo, che possiede le caratteristiche più congeniali alle nuove esigenze: l’esecutivo non è più realmente tale, non può più essere visto “come un semplice organo di esecuzione degli atti di governo decisi dal legislativo [ …], è l’esecutivo che governa in ultima istanza”.
Per questo c’è bisogno di un sistema competitivo tra proposte alternative di Governo: «come il bene comune non è una semplice somma di beni individuali, così la volontà comune non è una semplice somma di beni individuali. Il suffragio universale non ha la scopo di rappresentare semplicemente opinioni e volontà atomiche (rectius atomistiche – NdI) ma di dar forma ed espressione alle correnti comuni di opinione e di volontà. La maggioranza e la minoranza esprimono la volontà del popolo in due modi opposti, ma complementari e reali» e per questo occorre «superare ogni tentativo di introdurre il ‘cavallo di Troia’ della rappresentanza proporzionale nella struttura democratica».
Se nello Stato sociale il cosiddetto esecutivo è il centro effettivo di ultima istanza del potere politico, esso va democratizzato con un intervento diretto degli elettori. Maritain si schiera per l’elezione diretta del presidente della Repubblica che però in Europa, a causa del diverso contesto storico, non dovrebbe da solo esprimere l’esecutivo, ma convivere con un Primo Ministro da lui nominato ma soggetto a forme di controllo parlamentare. È uno schema che prefigura nel 1943 le istituzioni francesi del 1958-1962, e che forse può aver influenzato il noto discorso di De Gaulle a Bayeux del 1946 che già le aveva prospettate, e che rappresenta una delle modalità di possibile democratizzazione di un esecutivo efficiente, non più soggetto all’instabilità della Terza Repubblica. Così come Maritain aveva aiutato il mondo cattolico nei decenni precedenti a giungere all’opzione preferenziale per la democrazia espressa nei documenti del Concilio Vaticano II, anche negli anni Novanta il suo pensiero ha contribuito in Italia a legittimare l’opzione per una democrazia competitiva, per quanto essa si sia poi impantanata in una difficile transizione.
(Sintesi dell’Introduzione alla ripubblicazione del testo di Jacques Maritain “Riflessioni sull’America” in libreria da oggi per l’editrice Morcelliana)