Daniele Abbiati, Il Giornale, 4 III 2017
Il giovane Kafka, metamorfosi di un impiegato
Lavoratore instancabile alle Generali, Franz Kafka aveva un futuro assicurato. Poi passò al parastato…
Ma Kafka era più bravo come scrittore o come impiegato? Lui stesso non avrebbe saputo rispondere.
Perché, annota nel diario il 28 marzo 1911, «queste due professioni non si possono mai conciliare né ammettono una felicità comune. La più piccola felicità nell’una diventa una grande infelicità nell’altra. Se una sera scrivo qualcosa di buono, il giorno dopo in ufficio sto sulle spine e non riesco a combinare niente». Capito? Le due scrivanie, quella di casa e quella all’«Istituto di assicurazioni contro gli infortuni dei lavoratori del Regno di Boemia», dove era stato assunto nel 1908, lui le metteva sullo stesso piano. Ecco perché la domanda che ci siamo posti non deve risultare offensiva, né per il diretto interessato, né per i suoi lettori.
Non era quello il primo impiego dell’allucinato Franz. Dopo un anno di praticantato post laurea in giurisprudenza, peraltro vissuto come un calvario, l’1 ottobre del 1907 era infatti entrato, previa raccomandazione dello zio Alfred Löwy, nell’agenzia delle Assicurazioni Generali di piazza san Venceslao, nella sua Praga. Aushilfskraft, impiegato ausiliario, collocato nei ranghi del ramo vita.
Cercava un ottimo stipendio e un’occupazione che non gli sottraesse troppe ore alla scrittura. Non trovò né l’una, né l’altra cosa: 80 corone mensili per districarsi ogni giorno dalle 8 alle 18, fra padroni negrieri e operai spremuti. Tredici righe di curriculum, giusto per citare gli studi e il purgatorio «nello studio dell’avv. Richard Löwy», un altro zio materno. Superata la visita medica («è un uomo esile ma sano» sentenziò il dottore), potè quindi muovere lì i primi passi in quello che sarebbe diventato poi, all’«Istituto» appunto, Il castello, l’universo concentrazionario che asciuga come un’idrovora la vita del povero agrimensore K. «In ufficio. Sono alle Assicurazioni Generali, nutro però la speranza di sedermi un giorno sulle sedie di paesi molto lontani, di guardare dalle finestre dell’ufficio su campi di canna da zucchero o cimiteri musulmani, e il ramo assicurazioni mi interessa molto, anche se per il momento il mio lavoro è triste», scrive a una settimana dall’assunzione a Hedwig Weiler.
Dunque in lui c’era sì il desiderio di evadere, ma anche, acquattata sotto i faldoni, la fascinazione per la vita che scorreva fra polizze e premi. Nove mesi dura la gestazione di Kafka, ingravidato dal demone delle scartoffie, nove mesi in cui mostra una dedizione fuori dalla norma, avanzando nella carriera a velocità supersonica, da ausiliario a segretario superiore. Ma poi… «esprimiamo il nostro stupore che lo stato di salute del suddetto (Kafka, ndr), che dopo l’accurata visita del medico fiduciario effettuata nell’ottobre dell’anno scorso era stato raccomandato come assolutamente adatto, dopo così poco tempo sia cattivo a tal punto, da dover egli far seguire le sue immediate dimissioni». Così si chiude la pratica relativa allo scrittore nell’Archivio delle Generali che ora è diventato un librone di oltre 600 pagine e illustrazioni dal titolo Generali nella storia. Racconti d’archivio (Marsilio, euro 90). E nelle parole del dottor Gioberti Luzzati avvertiamo sia sorpresa, sia rammarico.
Già, perché dopo aver mollato il colpo il 4 luglio del 1908, il Nostro ci mette poche settimane ad accasarsi al suddetto «Istituto»: come dire, dal privato al pubblico, chi è causa del suo mal… Addio ai sogni di gloria in località esotiche, la metamorfosi di Franz da giovane ambizioso a scarafaggio parastatale si compie in un baleno. Ma quella non è una scelta avventata, un salto nel buio. Piuttosto, il compimento di un destino. Il Kafka maturo doveva marcire in ufficio, e conservare ritagli di notti per la sua «seconda vita», quella letteraria. Certo, egli continua a dare il meglio di sé nel lavoro, come testimonia l’interessante volume di Einaudi datato 1988 che raccoglie le Relazioni kafkiane sulle «attività edilizie complementari», gli infortuni «nelle piallatrici per legno», «l’istituzione e la gestione di una casa di cura per malattie nervose» riservata ai reduci di guerra… Certo, il buon Franz si schiera sempre dalla parte dei deboli, e non le manda a dire né alle istituzioni, né agli imprenditori. Ma scarpinando o sfrecciando in motocicletta su e giù per la tetra provincia boema durante i viaggi di ispezione, soggiornando in pensioni scalcinate, come racconta al fido Max Brod, mastica amaro.
Tuttavia, ammazzarsi di lavoro è un modo per accumulare fieno in cascina, visto il rapido fallimento della fabbrica di amianto messa su dal padre, per poi sfuggire un’insidia di altra natura: il matrimonio. «Essendo solo potrei forse un giorno abbandonare davvero il mio posto. Una volta sposato non sarà possibile mai», medita nell’estate del 1913. La fidanzata Felice Bauer, a meno di un anno dal primo incontro stava già diventando una pratica troppo complessa. Andò meglio con Milena Jesenská, anche perché non si vedevano quasi mai e flirtavano per lettera. Le scrive che «l’ufficio – e così sono stati la scuola elementare, il ginnasio, l’università, la famiglia, tutto – è un uomo vivo che, dovunque io sia, mi guarda con gli occhi innocenti, una persona con la quale sono stato unito in qualche modo che ignoro».
La fine stava arrivando, portando sia un bel Processo, sia un brutto funerale.