Luca Ciarrocca, blog Il Fatto Quotidiano, 18 XII 2018
Il capitalismo cinese compie 40 anni. Accettiamolo: l’economia Ue è condannata all’irrilevanza
Il fantasma di Karl Marx s’agita, rabbioso, per il mondo. Come poteva prevedere, il grande filosofo tedesco, che un ibrido e malefico connubio tra comunismo e capitalismo avrebbe avuto come conseguenza che tra gli indecentemente ricchi del pianeta, i miliardari veri, ben 338 oggi vivono in Cina? Già, la nuova superpotenza globale che come simbolo ha ancora “la falce e il martello”.
Non crediate sia retorica. La storica icona marxiana campeggiava martedì 18 dicembre nell’imponente Sala Grande del Popolo che s’affaccia a Pechino su Piazza Tiananmen, mentre Xi Jinping, il leader cinese più potente dopo Mao, assicuratosi la carica a vita al vertice di un governo visionario ma dal pugno di ferro, pronunciava un discorso di 90 minuti per celebrare il 40esimo anniversario della politica di “riforma e apertura” varata da Deng Xiaoping nel 1978. La Cina, oggi seconda economia per Pil e ricchezza dopo gli Stati Uniti, in quattro decenni, da Deng a Xi, ha realizzato quel che nessuna nazione nella storia è riuscita a compiere: 800 milioni di persone hanno lasciato i disagi della povertà, in virtù proprio di una formula magica senza uguali né precedenti, quel mix tra comunismo e capitalismo applicato a centinaia di milioni di persone che noi europei facciamo fatica a digerire.
Xi Jinping ha detto che nessuno può “dettare” il percorso di sviluppo economico della Cina. Pechino quindi non ha nessuna voglia di farsi ghettizzare o irreggimentare dalla pericolosa guerra commerciale iniziata dal sovranista, isolazionista e nazionalista Donald Trump. Rivolgendosi ai membri del Pcc, il leader cinese ha promesso di portare avanti le riforme economiche, spiegando che Pechino non si discosterà dal suo sistema monopartitico e andrà per la sua strada senza seguire diktat di chicchessia. “La grande bandiera del socialismo ha sempre sventolato alta sulla nostra terra”, ha detto. Nessuna concessione, quindi, alle tattiche becere da capo-cantiere dell’inquilino alla Casa Bianca.
Quel 18 dicembre 1978, nel famoso discorso sulla politica di “apertura”, Deng Xiaoping segnò quindi la strada per la Cina: “riformare un sistema economico asfittico basato su industria pesante e ‘comuni’ nelle campagne, e aprire al mondo”, dice Marco Marazzi, coautore del libro Intervista sulla Cina (Gangemi editore). Già nel 1979 Pechino emanò la prima legge sulle joint venture sino-straniere, una trentina di articoli semplici ma all’avanguardia per un Paese che non aveva ancora un diritto societario. Poi il cambiamento delle leggi sulle comuni, le riforme agrarie con gli incentivi ai contadini a produrre di più svincolandosi dai prodotti statali, per arrivare alla separazione tra gestione e proprietà delle aziende di Stato. “Non tutto fu rose e fiori ovviamente”, spiega Marazzi, “con gli eventi di Piazza Tiananmen e la conseguente violenta repressione, il Partito Comunista riaffermò il controllo assoluto sul passo, la qualità e la profondità di tutte le riforme”.
Eppure quel discorso di 40 anni fa dettò una linea che in seguito non ha mai smesso di essere applicata dai successori di Deng. Le riforme economiche, della struttura amministrativa dello Stato e l’apertura al mercato internazionale sono continuate senza interruzione, portando la Cina in otto lustri da un Pil di 150 miliardi agli attuali 12 trilioni di dollari, inferiore solo a quello Usa. Fino a 15 anni fa, quel che si decideva a Pechino aveva pochissima influenza sul resto del mondo. Oggi non più; e anche ignorando il piccolo esercito di 338 miliardari cinesi, il colosso asiatico con i suoi 1,4 miliardi di abitanti è l’altra potenza globale economica, politica e militare con cui confrontarsi (la Russia ha un Pil che è un terzo di quello italiano).
Facciamocene una ragione: la guerra commerciale Usa-Cina ci riguarda da vicino e ha ripercussioni sull’intera economia globale. Tuttavia se un ex palazzinaro può permettersi di avere idee sovraniste e iper-nazionaliste, essendo alla guida di un Paese ricco e potente come l’America, noi cittadini di un’Europa sempre più divisa, incerta e in crisi di coscienza siamo destinati invece all’irrilevanza e alla perdita di ogni futuro ruolo globale, costretti al declassamento. Rimarremo all’ombra e in balia di grandi super-nazioni, ineluttabilmente protagoniste della politica e dell’economia mondiale.