Nicola Mirenzi, Huffington Post, 10 III 2020
“Perché in Italia contro il coronavirus non si può fare come in Cina”
Il prof. Mignini: “I cinesi hanno sconfitto il virus grazie alla loro idea di popolo. Noi italiani invece siamo diversi”
Per sconfiggere il Coronavirus, sembra ci sia una sola strada da percorrere: fare come ha fatto la Cina. Editorialisti, analisti, commentatori, persone comuni: tutti indicano la stessa via. Ma si può davvero fare quello che ha fatto la Cina senza poter contare, non solo sulla dittatura cinese – che nemmeno in questa situazione di crisi molti si augurano sul serio – ma, soprattutto, senza poter contare sulla materia prima con cui opera lo stato cinese, ovvero i cinesi stessi, con il loro modo di pensare, di percepirsi nel mondo, di considerare il rapporto che li lega alle autorità? La risposta che dà Filippo Mignini – professore emerito di storia della filosofia presso l’università di Macerata, raffinato studioso della cultura cinese e autore di “Europa e Cina”, un libro che sarà pubblicato per Quodlibet giovedì – è diretta quanto l’invocazione: “No, impossibile”.
Il modello cinese del contenimento del Covid-19 è stato indicato come il modello da seguire sulla prima pagina del Quotidiano Nazionale di oggi. È preso in considerazione in numerose analisi della diffusione del contagio. È stato evocato anche dalla più prestigiosa delle riviste scientifiche mondiali, Lancet, nell’editoriale del suo ultimo numero. Tanto più lo è oggi che il presidente della Repubblica Popolare Cinese, Xi Jinping, è potuto andare per la prima volta in visita a Wuhan, la città focolaio dell’epidemia mondiale, forte dei dati che dicono che ieri sono stati diagnosticati solo 17 nuovi casi nel capoluogo della provincia di Hubei, mentre nessun nuovo caso è stato segnalato da cinque giorni a questa parte nelle altre città della provincia e, da tre giorni, nemmeno nel resto della Cina continentale.
È la prova che la cura cinese sta funzionando. Ma il problema che ci troviamo di fronte è: potrebbe funzionare anche in Italia, cioè reagendo con il modo in cui sono fatti gli italiani?
“Noi occidentali – risponde il professor Mignini – abbiamo un rapporto del tutto diverso tra popolo e autorità rispetto a quella che hanno i cinesi”. Nella sua premessa, la questione è teoretica. Nella realtà, invece, è molto concreta. “I cinesi percepiscono l’individuo come parte del tutto. Dalla comunità, discende l’esistenza anche del singolo. Viceversa, noi consideriamo il tutto come somma di ogni singola parte. È sul singolo che si costituisce la nostra idea di popolo, che non è altro che l’insieme delle nostre individualità”. Così, quando il 23 gennaio il governo cinese decide – senza altre misure intermedie precedenti – di chiudere la città di Wuhan, che conta 11 milioni di abitanti, nessuno ha registrato casi di persone che si sono accalcate nelle stazione dei treni per lasciare la città. Al contrario, quando in Italia trapela la notizia che il governo sta per serrare la regione Lombardia, che ha un milione di abitanti in meno della città di Wuhan, migliaia di persone si sono date da fare per lasciare la regione. Sebbene, da diversi giorni fossero già stati messi in quarantena undici comuni. E l’eventualità di una decisione del genere era già oggetto di dibattito.
La responsabilità del caos è stata addebitata, per lo più, a un errore di comunicazione del governo italiano. Eppure, non è solo quello. “Il cinese – spiega Mignini – ha alle spalle duemila e quattrocento anni di confucianesimo, una cultura ripresa anche dall’attuale partito comunista, che insegna un acuto senso della responsabilità sociale. Al contrario, noi abbiamo dietro una filosofia che si è mossa nella direzione di una forte maturazione della dimensione individuale”. Per rendere l’idea della radicale diversità delle culture, Mignini fa l’esempio della lingua scritta: “Un cinese – racconta – per comprendere una frase deve leggerla tutta, fino alla fine. Solo dopo può tornare indietro e dare un senso agli ideogrammi che la compongono. I quali, presi singolarmente, possono significare trenta, quaranta, cinquanta cose diverse, ma solo nell’insieme assumono un senso preciso. Nella nostra lingua, invece, ogni parola ha un senso di per sé, anche al di là del contesto in cui è inserita”.
Fare come la Cina, in assenza di un popolo cinese, potrebbe dunque essere un’impresa fuori dalla nostra portata. “Cosa sarebbe successo se il governo Conte avesse immediatamente chiuso tutta l’Italia?”, si domanda il professor Mignini. La risposta è nelle parole che il presidente del consiglio ha confidato ai ministri che più premevano per imporre fin da subito misure radicali: “Potremo chiudere tutto solo quando il Paese sarà pronto psicologicamente a misure talmente drastiche”. Non avendo dietro di sé la formazione millenaria che hanno i cinesi, è ragionevole pensare che – in un arco ragionevole di tempo – gli italiani non saranno pronti psicologicamente a prendere le misure che hanno preso i cinesi.
“La sfida del governo italiano – dice Mignini – è riuscire a trovare un modello di reazione al contagio adeguato a raggiungere gli obiettivi raggiunti dai cinesi, ma allo stesso tempo compatibile con il nostro modo di percepire noi stessi come individui inseriti dentro una comunità”. Può darsi, dunque, che la la globalizzazione abbia inverato un vecchio slogan del Sessantotto, fino al punto di renderlo un modello per i governi occidentali. Lo slogan diceva: “La Cina è vicina”. Il problema è che i cinesi non lo sono affatto.