Massimiliano Panarari, La Stampa, 2 III 2019
LA DEMOCRAZIA DELL’ALGORITMO
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I social network e i social media – e, più in generale, le tecnologie digitali – stanno ridefinendo le forme della politica. Quelle, direttamente, del fare e praticare la politica, e non esclusivamente del comunicarla o del promuoverne i messaggi a fini di costruzione del consenso. Un processo (autenticamente) rivoluzionario, che va osservato e indagato secondo tre dimensioni: l’aspetto teorico, quello pratico dell’efficacia elettorale e, last but non least (anzi!), quello dell’analisi della disinformazione e dei problemi per la sicurezza collettiva che ne derivano.
Col suo Tecnologie per il potere, Giovanni Ziccardi – esperto di Ict e professore di Informatica giuridica all’ Università di Milano – ha realizzato un compendio dettagliato di tutte le principali questioni relative alla politica digitale e delle poste in palio per la tenuta e i principi della democrazia liberalrappresentativa. Aprendo in questo libro una serie di squarci – assai inquietanti – sulla cybersecurity (di cui è uno specialista) e sulla manipolazione a fini politici dei dati personali privati.
Esiste un evento che fa da spartiacque e da punto di cesura nella storia delle relazioni tra le Information and communications technologies e la politica, e che funziona da momento inaugurale della stagione in cui viviamo.
Si tratta delle campagne elettorali del 2008 e 2012 di Barack Obama, nel corso delle quali si è arrivati a un livello mai raggiunto in precedenza di tecnologizzazione del campaigning e della comunicazione politica a opera di staff organizzativi e consulenti portatori di elevatissime competenze specifiche.
Questa coppia di appuntamenti elettorali ha mostrato, de facto per la prima volta nella storia della politica, come l’ utilizzo di un enorme e «certosino» database, la sua lavorazione attraverso le metodologie dei Big data, un’ attività scientifica e meticolosissima di profilazione dei possibili elettori e l’ impiego imponente e coordinato dei social network possano fare delle tecnologie digitali una strategia elettorale a tutti gli effetti.
E, giustappunto, dopo quelle due esperienze seminali di campaigning informatizzato, nulla è stato davvero più come in precedenza. Dallo stadio dei database elettorali come (colossali) archivi sostanzialmente statici si è quindi passati a uno profondamente diverso, imperniato sui social quali strumenti di consensus-building; da cui una progressiva accelerazione dell’azione elettorale (la fast politics) e una micro-targetizzazione dell’obiettivo e del messaggio (sempre più «ritagliato» sul destinatario potenziale), con la possibilità di un aggiornamento costante e in tempo reale dell’attività propagandistica grazie ai feed e alle informazioni raccolte dagli utenti delle piattaforme.
Ossia il paesaggio politico odierno, dall’America trumpiana all’ Italia legastellata, poiché dopo le pionieristiche campagne obamiane sono stati i partiti e movimenti neopopulisti a riscrivere le regole del gioco elettorale in Occidente, traendone in maniera schiacciante i maggiori benefici dal punto di vista dei voti. La polarizzazione e la frammentazione del consenso e del discorso pubblico (come, inevitabilmente, dell’opinione e della sfera pubbliche) vanno, pertanto, considerate alla stregua di una diretta conseguenza dell’ambiente tecnologico che si è ibridato con la politica nel primo decennio degli anni Duemila – ragion per cui potremmo, probabilmente, parlare di una campagna elettorale fattasi post-postmoderna.
La politica smart, mediante app, open data e social, ha anche – come stiamo sperimentando in questi ultimissimi anni, dalle presidenziali Usa alla Brexit britannica, passando per l’Italia e l’attuale Francia messa a ferro e fuoco dei gilet gialli – un «lato oscuro della forza», che viene veicolato, sempre via social, dalle fabbriche dei troll e dei falsi profili, dalle catene dei chatbot e dalla propaganda «paramilitare» dispiegata dagli imprenditori politici delle fake news e della post-verità.
Uno scenario drammatico, ampiamente scandagliato dal volume, che ha trovato una rappresentazione molto concreta nello scandaloso affaire Cambridge Analytica. Siamo definitivamente entrati, dunque, nell’era della «dittatura dell’ algoritmo» e dell’ applicazione alla politica di elementi sempre più sofisticati di intelligenza artificiale, in grado di consentire il «pedinamento digitale» dei cittadini-elettori e quell’analisi predittiva che si propone di individuare i futuri comportamenti di voto con un significativo margine di certezza.
E che, nel caso della sua versione dark side, oltre ai problemi di fondo riguardanti la mancata tutela della privacy dei dati dei singoli, va a sconfinare direttamente nei lidi illeciti della violazione della sicurezza informatica e della manipolazione integrale. La psicopolitica digitale, come la chiama il filosofo tedesco-coreano Byung-Chul Han, responsabile delle distorsioni a cui stiamo assistendo nella vita democratica contemporanea.