L’INCHIESTA
Buropazzie, regolamenti edilizi:
da Milano a Roma, da Napoli a Firenze, una giungla di norme folli.
Ogni Comune ha norme proprie, ogni città impone misure diverse per esempio per i locali abitabili o per i parapetti dei balconi. E il tentativo di unificare tutte le leggi è fermo fra liti e proposte in contrasto una con l’altra.
Ancora è sconosciuto il virus che ha indotto gli estensori del regolamento edilizio del Comune di Firenze a scrivere l’articolo 42. Né sappiamo il perché nessuno, nella città che fu di quel genio dell’architettura rinascimentale che rispondeva al nome di Filippo Brunelleschi, abbia sentito la necessità di emendarlo da quella grottesca ovvietà, neppure quando ne era sindaco l’attuale premier Matte Renzi. Di sicuro, però, in un Paese come gli Stati Uniti il suddetto articolo, nel quale viene decretato che «non costituiscono pareti finestrate le pareti prive di aperture», sarebbe iscritto d’ufficio nella hall of fame del sito www.dumblaws.com. che contiene un florilegio delle leggi più assurde ed esilaranti. Magari accanto alla disposizione emanata in Arkansas che vieta «di passeggiare con una mucca nella strada principale di Little Rock dopo le 13 di domenica».
Ma per quanto la cosa possa suscitare ilarità, non c’è proprio niente da ridere. Si può star certi che questa non è l’unica inutile esibizione burocratica dei nostri solerti uffici tecnici municipali. Perché si dà il caso che gli 8 mila e passa comuni italiani abbiano 8 mila e passa regolamenti edilizi. Uno diverso dall’altro. La conseguenza è che nel guazzabuglio indefinito e incomprensibile che ne scaturisce il guizzo di follia è costantemente in agguato. Tanto per cominciare, non si conosce neppure il numero esatto delle norme. Se a Napoli il regolamento edilizio è composto da 71 articoli, quello di Roma ne ha 95. Firenze, 100. Reggio Calabria, 103. Milano, 151. Catania, addirittura 163.
Ma è il confronto fra quello che c’è dentro ognuno di essi a lasciare letteralmente basiti, tanto da far pensare che certe cose non possano essere casuali. Come si giustifica, per esempio, che la dimensione della camera matrimoniale (?!) sia di 14 metri quadrati a Firenze e di 12 a Milano, mentre a Reggio Calabria «i locali adibiti ad abitazione, a mente del D.M. 5/7/1975 devono avere una cubatura minima di mc. 24,30»? Dipende forse dal diverso grado di intimità fra gli sposi fiorentini rispetto ai i milanesi o ai reggini? Chissà. E la cucina, allora, ne vogliamo parlare? Per quale ragione a Milano può essere anche di cinque metri quadrati mentre a Firenze ne sono richiesti nove?
Perché i parapetti dei balconi a Milano devono avere un’altezza di un metro e dieci centimetri, mentre a Roma è sufficiente un metro? Ci siamo: è una questione antropologica. Al confronto dei romani i milanesi sono Vatussi, non c’è dubbio. Se poi però un milanese decide di prendere casa a Roma… La spiegazione dev’essere la medesima, ovvio, nel caso delle prescrizioni relative al rivestimento impermeabile dei bagni: a Milano deva avere un’altezza minima da terra di un metro e 80 centimetri; a Napoli basta un metro e mezzo. I napoletani saranno anche più bassi, ma non per questo hanno bisogno di meno spazio. Anzi. Un alloggio abitabile a Milano e a Firenze non deve avere una superficie inferiore a 28 metri quadrati? A Napoli ce ne vogliono almeno 45.
Stupidaggini, penserà qualcuno. Senza considerare, però, l’impatto che questo delirio di norme e disposizioni diverse ha sulle attività economiche in termini di tempi e costi. Ora però c’è una legge che finalmente impone un regolamento edilizio unico per tutti i municipi italiani come del resto c’è in Germania, dove le pratiche sono decisamente più rapide: 97 giorni in media per una licenza edilizia contro i 258 nostri. Evviva. Centrare l’obiettivo non è stato facile, per le resistenze di Regioni e Comuni. Ma non così difficile come il passaggio dalla norma contenuta nello Sblocca Italia alla sua applicazione. Perché non basta decidere di avere un solo regolamento. Bisogna anche scriverlo: compito demandato a un tavolo inserito in un’agenda governativa dal nome impeccabile: «Italia Semplice». È lì che le resistenze sono diventate insormontabili.
C’è chi ha eccepito l’esigenza di modificare le leggi urbanistiche. Chi il problema dei piani regolatori. E chi semplicemente si è messo di traverso. L’anno di tempo previsto è quindi passato invano. Il regolamento unico doveva vedere la luce entro novembre e invece ancora si battibecca sulle definizioni: se una veranda si deve proprio chiamare veranda, che cosa si intende per superficie utile, com’è fatta una terrazza. C’è un elenco di 40 voci ancora a bagno maria. E gli 8 mila e passa regolamenti dormono sonni tranquilli…