Giulia Silvia Ghia, Blog su Huffpost, 8 I 2020
I significati nascosti dell’arte, tesoro del passato per leggere il presente
Spiegare il senso di una mostra attraverso le storie che i quadri raccontano rappresenta uno degli obiettivi di una corretta didattica, che non si soffermi sui meri dati tecnici, ma vada oltre il periodo di riferimento di un dipinto permettendo al visitatore di entrare nel vivo di una storia e di comprenderne il contesto.
Questo è lo sforzo che ho compiuto nella cura di un’esposizione dal titolo la ”Giustizia nell’arte” in corso a Palazzo Reale a Napoli fino alla fine di gennaio, che volutamente è arricchita da didascalie “parlanti”. Raccontare il tema della giustizia nell’arte dalla notte dei tempi, sarebbe stato un po’ troppo ambizioso e soprattutto poco realizzabile. La chiave di lettura di questa esposizione va ricercata nel racconto dell’immagine della giustizia e del tema del giudizio i cui aspetti, canonici e curiosi al tempo stesso, nei secoli sono stati immortalati in opere d’arte e non solo.
Pertanto ho ritenuto che fosse importante dare la precedenza prima ancora che alla cronologia e all’autore, al senso insito in ognuno dei dipinti esposti, alla loro storia narrata attraverso la pittura di chi ha interpretato narrazioni bibliche o vicende umane secondo una sua personale sensibilità. Dietro ogni dipinto esiste una storia carica di significati e rimandi lontani che il visitatore è chiamato, se stimolato in modo opportuno, a cogliere nella sua interezza, ponendosi domande, sciogliendo dubbi. Arricchendosi di continuo.
Non sempre i nostri occhi sono in grado di comprendere immediatamente il concetto di un’immagine antica mentre in passato di fronte a un dipinto era quasi immediata la comprensione del suo significato, nonostante la maggioranza della popolazione fosse analfabeta. Simboli, oggetti, particolari attributi, personificazioni, costituivano una sorta di linguaggio comune universalmente riconosciuto.
Così ad esempio l’accostamento di una figura femminile a quella di una ruota dentata veniva inteso chiaramente come l’immagine di Santa Caterina D’Alessandria. Oppure Santa Cecilia, oggi patrona di musicisti poeti e cantanti, i cui tratti distintivi fin dall’antichità erano il giglio, il liuto o una serie di spartiti. O ancora, osservare il dipinto di un uomo trafitto da una serie di frecce significava di sicuro avere dinnanzi San Sebastiano. E così via per molti altri personaggi.
Il percorso della mostra in questione si apre proprio con la codificazione della personificazione della Giustizia pubblicata nel testo di Cesare Ripa nella seconda metà del ’500. Si tratta di una donna che possedendo determinati attributi (bilancia, spada, benda, leone, occhi), alternati in base alla tipologia veniva intesa, oggi come allora come il simbolo univoco della Giustizia.
Gli stessi attributi in seguito saranno conferiti all’arcangelo Michele che con l’avvento del cristianesimo sarebbe stato riconosciuto da tutti come il tramite della giustizia divina, il principe che guiderà alla vittoria la milizia celeste contro Satana. Lo dimostra un piccolo rame, presente in mostra, restaurato per l’occasione, nel cui centro è posizionata la figura di San Michele con la bilancia in mano e una spada infuocata nell’altra, nell’atto di compiere la giustizia divina e di riportare l’ordine nel regno dei Cieli.
Il percorso in mostra prosegue tra opere che raccontano l’intreccio tra giudizio divino e la giustizia umana. Tra queste saltano agli occhi la meravigliosa ″Giuditta e Oloferne” opera inedita appartenente a una collezione privata ancora tutta da studiare, il ”Ritorno del figliol Prodigo” mirabile opera del Guercino proveniente dalla Galleria Borghese, o ancora il ”Giudizio di Salomone” custodito nella preziosa pinacoteca dei Girolamini da cui deriva anche il ”Sacrificio di Isacco”.
Il percorso si chiude con quattro volumi custoditi presso l’Archivio di Stato di Roma che contengono i processi i cui protagonisti sono diventati nell’immaginario collettivo personaggi le cui storie ancora oggi alimentano miti e fantasie. Curioso è il documento del processo di Giordano Bruno aperto sulla pagina della dichiarazione della sua condanna dove compare un disegno del rogo a cui verrà destinato.
È un fatto comune trovare negli antichi documenti processuali piccoli disegni o miniature che permettevano anche a coloro che non sapevano leggere di comprenderne il contenuto inequivocabilmente. Segue poi la supplica di Beatrice Cenci, fanciulla condannata a morte per aver commissionato l’omicidio del padre che più volte aveva abusato di lei. Tra i testimoni della sua decapitazione avvenuta in una pubblica piazza vi era Michelangelo Merisi da Caravaggio che ne rimase talmente colpito da prendere spunto per quella innovativa iconografia della Giuditta che taglia la testa a Oloferne che in seguito ispirò numerosi artisti. Ed è proprio con la figura di questo straordinario pittore che si chiude la mostra. L’ultima opera esposta è il documento che riporta il processo intentato contro di lui dal pittore Giovanni Baglione che lo denunciò per infamia. Chiamato a testimoniare, Caravaggio con non poca ironia, diede in questa circostanza la sua unica testimonianza diretta ossia la spiegazione di cosa per lui fosse un valente pittore, consegnandosi così al mito oltre che alla Giustizia.
Le didascalie “parlanti” rendono immediato il disegno espositivo, permettendo così al visitatore di terminare il percorso con in mente un chiaro significato di ciò che i quadri esposti contengono. Non solo nella loro immagine prettamente visiva, ma nel complesso di tutte quelle vicende storiche e umane che vivono dietro la tela. Un universo quest’ultimo carico di connessioni, significati profondi, rimandi al presente. Solo riconoscendo questi rimandi ogni visitatore porterà con sé, al termine di una mostra d’arte, ciò che ha sentito più vicino al suo vissuto. Credo che in fondo sia questa la missione più autentica di una mostra e di un museo, ovvero quella di mettere le persone nella condizione di comprendere messaggi, di porsi domande, di creare connessioni tra un passato che sembra lontano ma che spesso si ripropone nella quotidianità di ognuno.
Mi permetto un esempio forse eccessivo ma che rende meglio ciò che voglio esprimere. Se noi oggi per la strada vediamo, anche di sfuggita, un’immagine pubblicitaria di un ragazzo che indossa una maglia con il numero 10, immediatamente, senza neanche leggere connettiamo quel messaggio al mondo del calcio. Le immagini artistiche dovevano avere la stessa funzione nel passato, ad occhi abituati a leggere quelle immagini esprimevano dei messaggi.
Il nodo per la sopravvivenza del nostro patrimonio culturale è tutto qui: nella necessità di tornare a comunicarne il significato, permettendo soprattutto alle nuove generazioni di avvicinarsi all’arte con curiosità e stupore, di rendere loro tesoro la bellezza del passato perché possa essere fonte di ispirazione per il loro presente e futuro, di riscoprire significati nascosti riconoscendovi un’appartenenza e una chiave di lettura per l’attuale e quanto mai complessa società in cui viviamo.