Nicola Mirenzi, Huffington Post, 27 X 2019
“Italiani senza sogni e speranze, non rischiano più”. Intervista a Massimo Valerii (Censis)
Il terreno dello scontro è al di qua del Palazzo e della Piazza: “Il sovranismo si combatte nella psiche delle persone, prima ancora che nella politica. Perché è lì che si è insediato: nella testa e nel cuore degli individui. Sarebbe troppo facile credere che le sue fiamme brucino per colpa di capi demagogici che salgono sul palco con una tanica di benzina in una mano e un cerino nell’altra, pronti ad appiccare il fuoco. Al contrario, l’incendio si è scatenato partendo dal materiale infiammabile che la crisi ha depositato dentro di noi”. Direttore generale del Censis, Massimo Valerii scrive da anni il rapporto sulla situazione sociale del paese, dopo aver auscultato i movimenti dell’anima collettiva degli italiani, quantificando la rabbia, il desiderio, la frustrazione, i sogni, le speranze, le angosce: “La crisi non è stata solo di tipo materiale, ma ha intaccato in profondità il modo di percepire il futuro. La deflazione ha colpito soprattutto le aspettative delle persone. Nessuno nutre più speranze. Pochi si proiettano positivamente nel domani. Qualsiasi slancio è corroso dall’incertezza”.
Nel suo libro, La notte di un’epoca (Ponte alle Grazie) – un saggio che racconta (con i numeri) le passioni tristi del nostro tempo, andando però di molto oltre il dibattito sugli zero virgola – utilizza una meravigliosa immagine di Ernst Bloch per disegnare ciò che l’Italia dovrebbe fare per uscire dal rancore in cui si è ripiegata. Ovvero: “Ritrovare ‘l’estasi del camminare eretti’. Cioè, l’aspirazione a innalzarsi, concretizzando il desiderio di una vita migliore e più degna”. È il movimento tipico di ogni sollevazione: ci si alza in piedi per scrollarsi di dosso il peso di una oppressione, oppure di un sopruso, per poter tornare a respirare liberamente, partendo sempre da due parole: “Ora basta”.
Ma non è ciò che hanno fatto i movimenti populisti, Direttore?
No, i movimenti populisti sono una conseguenza della crisi, non sono una risposta. Poiché non propongono un progetto di riscatto, ma politicizzano un sentimento divenuto dominante: l’insicurezza.
Perché funziona, però?
Perché il naufragio delle grandi narrazioni post ideologiche – l’ideale europeo, la globalizzazione, la rete – non è ancora stato superato da un altro progetto. E in assenza di una cornice ideale dentro la quale costruire la propria identità, vince l’incertezza e la paura. Ecco perché il paradigma securitario si è affermato.
Non è vero che siamo un paese insicuro?
Statisticamente, questa è l’Italia più sicura di sempre. Il numero degli omicidi è quattro volte inferiore a quello di trent’anni fa. Eppure, è innegabile che ci sia una domanda radicale di sicurezza.
Cosa ci vorrebbe per affrontarla?
Accanto alla dimensione materiale, c’è un aspetto altrettanto decisivo, sebbene assai più trascurato, della crisi: è il suo carattere immateriale. Il problema è che le persone hanno smesso di sperare. Non immaginano un futuro migliore del presente. Non coltivano sogni. Non rischiano. Non si spingono oltre il limite.
Non è un effetto della fragilità economica, questo?
No, i dati dicono che – a dispetto della retorica delle famiglie che non arrivano alla fine del mese –, nei dieci anni successivi all’inizio della crisi del 2007, gli italiani hanno accumulato una liquidità aggiuntiva di 182 miliardi, un valore che corrisponde all’intero Pil di una paese europeo come la Grecia. Si tratta di grande quantità di risparmio, cioè di soldi che gli italiani non hanno né investito, né speso.
Perché non lo hanno fatto?
Per un motivo molto semplice: hanno avuto paura che il futuro sarebbe stato peggiore del presente. Per questo, è necessario recuperare la speranza, la forza di sognare a occhi aperti, perché sono i sogni che si fanno di giorno quelli che ti danno il coraggio di andare oltre, di rischiare.
Dunque, è falso dire che l’Italia si è impoverita?
No, come succede sempre nelle fasi di crisi economiche, un certo numero di persone è scivolato sotto la soglia di povertà. Ma non si tratta di livelli di massa. In realtà, il portafoglio delle attività finanziarie delle famiglie si è gonfiato fino a un ammontare complessivo superiore a 4.200 miliardi di euro (cioè due volte e mezza il valore del Pil).
L’Italia quindi è in forma?
Ma certo che ci sono dei problemi. Per esempio, c’è un sistema di welfare in evidente crisi; ci sono delle previsioni demografiche che dicono che nel 2050 il numero degli italiani diminuirà di quattro milioni e mezzo di persone, con tutto ciò che questo comporta in termini economici, politici e di peso dell’Italia nel mondo globale.
Non sono questi i problemi di cui si occupano i sovranisti?
Sì, ma senza avere una soluzione. L’idea di proteggere il proprio stato istituendo nuovi dazi è una reazione alla crisi della globalizzazione, che, negli anni novanta, abbiamo creduto avrebbe esteso il benessere in tutto il mondo.
Invece?
La globalizzazione ha diminuito le diseguaglianze tra gli stati, ma ha aumentato le diseguaglianze dentro gli stati. È un modello che ha bisogno di essere corretto. Ma buttare l’acqua sporca insieme al bambino è molto pericoloso. Per comprenderlo, basta considerare i dati della la congiuntura negativa che stiamo affrontando, che è figlia della diminuzione degli investimenti esteri e della riduzione dell’interscambio mondiale.
In Italia, però, i sovranisti sono stati spinti all’opposizione dal Pd e dai 5 stelle.
Sarebbe un errore pensare che quella che è stata un’operazione parlamentare, seppure legittima, sia il riflesso di una nuovo clima sociale nel paese.
È ancora Salvini il capitano dell’Italia?
Questo potranno dirlo sole le urne. Ma, di certo, il rancore che ha alimentato il voto di protesta sovranista non è stato sradicato dal corpo sociale. E fino a quando non verranno meno le ragioni profonde che lo hanno nutrito, il rancore continuerà a scuotere la vita pubblica italiana.
Come lo si può disinnescare?
Individuando una nuova grande narrazione e disegnando un altro modello di sviluppo.
E nessuno sta andando in questa direzione?
Al momento, la politica ha rinunciato anche allo storytelling. Si muove nell’orizzonte del giorno per giorno. “I potenti – ha scritto la politologa americana Wendy Brown – non hanno più le sembianze dei sovrani ma quelle di soggetti di conversazione”.
Che significa?
Che il potere reale si è spostato sempre di più fuori dai confini nazionali. È senza volto. Mentre i volti dei politici nazionali sono sempre più impotenti. Appaiono in continuazione, ma contano sempre meno. E più diminuisce il loro potere, più sono costretti a migliorare le loro performance nel ‘teatro della sovranità perduta’, che sono i media.