Marino Niola, Robinson La Repubblica, 20.8. 2020
Se volete capire Napoli dovete leggere “La pelle”, il controverso romanzo di Curzio Malaparte
«Ecco la Sirena! In quel momento la porta si aprì e sulla soglia apparvero quattro valletti in livrea recando un enorme pesce adagiato in un immenso vassoio d’ argento massiccio. Tutti guardammo il pesce, e allibimmo. Un debole grido d’ orrore sfuggì dalle labbra di Mrs. Flat, e il Generale Cork impallidì. Una bambina, qualcosa che assomigliava a una bambina, era distesa sulla schiena in mezzo al vassoio, sopra un letto di verdi foglie di lattuga, entro una grande ghirlanda di rosei rami di corallo».
La Sirena bollita è la scena madre de “La pelle”, il rutilante e controverso romanzo di Curzio Malaparte, ambientato a Napoli nei giorni della liberazione. È un trattamento d’ urto narrativo, che corre sul discrimine fra storia e mito, fra orrore e stupore, tra grottesco e picaresco.
La pensata di mettere in maionese Partenope, la leggendaria fondatrice di Neapolis, è un colpo di genio. Perché fa di quell’ essere con due nature, la metafora destabilizzante di una città che ha il disincanto negli occhi e l’ iperbole sulle labbra, la misura nella mente e la trafittura nel cuore. La tana perfetta di un popolo che ha l’ esagerazione nel genoma.
Un dna barocco in un corpo senza tempo. Servito su un piatto d’ argento agli Americani, che si mangiano la città e al tempo stesso temono il contagio delle anime diffuso da quella dependance di Sodoma e Gomorra.
In realtà Malaparte dà parole nuove ad un antico modo di guardare Napoli, ad una consolidata convenzione rappresentativa di questa metropoli mediterranea. Suggerita proprio dalla brulicante umanità che la sovrappopola, dalla densità concitata e recitata, dalla promiscuità sofferente, dalla natura bella e impassibile, dal relativismo etico e dal rigorismo materialistico. Che da Boccaccio a Goethe, da Walter Benjamin ad Anna Maria Ortese, fino ai servizi giornalistici dei nostri giorni, alimenta l’ immagine di un umano troppo umano. Virale ma anche vitale.
Dal canto suo, l’ autore stesso oscilla tra la fascinazione negativa di questo eccesso di umanità e l’ esaltazione del suo antidoto, prodotto dalla comunità. Stretta in un corpo a corpo venefico e salvifico, tenuta insieme da una sorta di collante solidaristico, di secrezione indulgenziale prodotta dal suo organismo di Sirena, in cui miseria e nobiltà, perversione e redenzione, colore e furore trovano un teatralissimo equilibrio.
« Lo so, Jack – dice Malaparte al colonnello Hamilton, mentre si calano negli inferi partenopei – lo so che vuoi bene a questo povero, infelice, meraviglioso popolo. Nessun popolo sulla terra ha sofferto quanto il popolo napoletano. Soffre la fame e la schiavitù da venti secoli, e non si lamenta. Non maledice nessuno, non odia nessuno: neppure la sua miseria. Cristo era napoletano ». Affiora l’ immagine di una Napoli contaminata ma non dannata, un abisso di abiezione innocente, una tenebra illuminata da un sole impudico, di cui il maledetto toscano offre una descrizione di un nero scintillante, come un velluto di Velázquez.
Il chiaroscuro della sua scrittura, ci rivela una wunderkammer di lambiccatissime nequizie. Che ha qualcosa di sconciamente barocco. Le rasoiate con le quali apre il ventre di Napoli, eviscerando la Sirena con estetizzante oggettività da antico anatomista, si intrecciano in una funambolica autofiction, con l’ autore che invade il campo della sua scrittura, trasformandosi in personaggio. Che si narra nell’ atto di narrare. Del resto, diceva Leo Longanesi, Malaparte vorrebbe essere lo sposo a ogni matrimonio e il morto a ogni funerale.
Come nell’ episodio delle parrucche bionde con cui le segnorine, coprono il pube perché «Negroes like blondes» (ai neri piacciono bionde). «La ragazza andò a sedersi sulla sponda del letto, si alzò la sottana, e allargando le gambe si mise la ” parrucca” sul pube. Era una cosa mostruosa, pareva veramente una parrucca, quel ciuffo di peli biondi che le coprivano tutto il ventre e le scendevano fino a mezza coscia. L’ altra ragazza rideva, dicendo «For negros, for american negros ten dollars each. Not expensive. Buy one!”. Anche le donne hanno perso la guerra».
Ma a fronte di questo sbubbonare di veleni vecchi e nuovi, l’ antica pietas della città continua a produrre anticorpi sociali, alimentati da una inesausta munificenza del cuore. Come quella di Consuelo Caracciolo, la principessa che si spoglia dei suoi abiti sfarzosi per rivestire la nudità di una ragazza del popolarissimo quartiere del Pallonetto, morta sotto le bombe. E che la nobildonna fa distendere sul tavolo delle cerimonie del suo sontuoso palazzo di Pizzofalcone.
«La giovinetta giaceva nuda mentre Consuelo, sollevandole la testa con la mano, le pettinava con l’ altra i lunghi capelli neri. A un tratto Consuelo si tolse gli scarpini di seta, le calze e con gesti rapidi e lievi ne vestì la morta.
Poi si tolse il giubbetto di raso, la gonna, la sottoveste. Si spogliava lentamente, aveva il viso pallidissimo, gli occhi illuminati da uno strano, fermo bagliore. E molti s’ inginocchiavano pregando, come davanti a un’ immagine sacra o a qualche miracolosa Madonna di cera».
Eppure, in quella Pizzofalcone senza bastardi, dove la principessa recita le sue personali opere di misericordia – visitare gli infermi, vestire gli ignudi, seppellire i morti – quest’ eco misericordiosa è tornata a risuonare tra i vicoli anche nei giorni del lockdown. Agli angoli delle strade, accanto alle immagini di Madonne con sette spade nel cuore, dai balconi penzolavano cesti pieni di viveri con cartelli scritti da mani abituate a maneggiare la penna «Chi può dia. Chi ha bisogno prenda».
Insomma, “La pelle” rivela proprio nella pietà una disposizione atavica di questa “Napoli- tana”, che resta un’ enciclopedia vivente dell’ umano, nella vertigine delle sue altezze e nel fondo tartareo delle sue bassezze. Forse perché remotamente assuefatta all’ emergenza, avvezza all’ indulgenza, di casa nello stato di eccezione, rotta alle infiammazioni e sopravvissuta alle epidemie.
Ecco perché Napoli gestisce sempre i suoi vizi con leggerezza, le sue virtù con grazia e la sua miseria con generosità, come si addice ad un’ antica capitale della carità. E le ultime parole de “La pelle” ci aiutano a capirne le ragioni, svelandoci l’ arcano di una pietà senza eccezioni, che abbraccia enti e viventi. Con Malaparte che guarda il Vesuvio e ripete come un mantra « Pietà, pietà. Pietà anche per te!».