Roberta Scorranese, Corriere della sera, V 2020
GIOTTO E LA CAPPELLA DEGLI SCROVEGNI
Affreschi ed enigmi: uno dei capolavori di Padova visti da vicino.
La Cappella degli Scrovegni e la modernità di Giotto
Ottocentocinquanta giorni. Tanto impiegò Giotto, tra il 1303 e il 1305, a completare il gigantesco affresco che fa della padovana Cappella degli Scrovegni uno dei luoghi più visitati del Veneto. […] La Cappella rivela un teatro sfaccettato: c’è l’umanità delle storie di Anna e Gioacchino, ci sono il Giudizio Universale e le allegorie. Ogni riquadro di questo spettacolo di 900 metri quadri racchiude un racconto. Più o meno enigmatico.
L’enigma del committente
Una delle ipotesi avanzate per decenni è quella secondo la quale Enrico Scrovegni, il banchiere committente, si fosse fatto costruire questo mausoleo privato per espiare le proprie colpe e quelle della sua stirpe, colpe legate all’usura. Il punto d’appoggio si trova nella «Divina Commedia», dove Dante — destinandolo all’Inferno tra gli usurai — intreccia con lui un dialogo pieno di disprezzo. Molti hanno visto la conferma di questa vulgata anche nella rappresentazione stessa del banchiere, che si è fatto ritrarre nell’atto di consegnare un modellino della Cappella alla Madonna. Ma è davvero così?
Oggi la maggior parte degli storici dissente e in prima linea c’è una medievista importante come Chiara Frugoni, che all’iconografia di Giotto ha dedicato anni di ricerche. Frugoni smonta questa ipotesi elencando le date: la Cappella degli Scrovegni venne consacrata nel 1305, mentre la «Divina Commedia» fu resa pubblica intorno al 1315. È dunque altamente improbabile che Enrico si fosse lasciato condizionare dal Giudizio di Dante, visto che non poteva ancora conoscerlo.
Il significato delle storie di Anna e Gioacchino
Ma dunque tutta l’architettura della Cappella è avulsa da interessi «propagandistici» precisi? No, sempre secondo Frugoni. Le storie di Anna e Gioacchino, per esempio, sarebbero state scelte da Enrico Scrovegni con un proposito ben preciso: dimostrare che, se bene utilizzato, il denaro non ha nulla di peccaminoso.Vediamo allora questa complessa allegoria pittorica, cominciando da loro, dai genitori di Maria, due figure che non compaiono nemmeno nei Vangeli canonici, ma solo in quelli apocrifi. Com’è possibile che a loro sia dedicata una porzione così ampia della Cappella padovana? Il nesso sarebbe questo: cacciato dal Tempio perché sterile, Gioacchino era però molto ricco e — quel che qui conta — molto prodigo. Sarebbe stato questo il motivo per cui la coppia venne scelta dalle sfere celesti per dare alla luce la madre di Dio. Se le ricchezze sono ben distribuite — è il concetto — anche un uomo ricco come Enrico può presentarsi al cospetto di Maria senza troppi imbarazzi.
Il legame con Dante
In effetti lo Scrovegni si era dato molto da fare: aveva finanziato un monastero dedicato a Sant’Orsola, fece il diavolo a quattro per trasformare la Cappella da luogo di culto privato a edificio aperto a tutti. Insomma, le intenzioni di farsi accettare c’erano, ma la pittura giottesca mantenne un’alta originalità. E questo è interessante anche alla luce dei legami tra il pittore-imprenditore e Dante. I due infatti coltivavano una stima reciproca documentata nelle rispettive opere. Se alla morte del poeta l’artista ne fece un suggestivo ritratto — visibile al museo del Bargello —, Dante scrisse le parole che segnarono la carriera (e forse la fortuna stessa) di Giotto. Nel Purgatorio lo sintetizzò così: «Credette Cimabue nella pittura tener lo campo, e ora Giotto il grido, sì che la fama di colui è scura». La consacrazione letteraria era quello che serviva all’artista, uomo poliedrico, che divenne ricco e famoso anche per l’abilità nel coltivare i rapporti.
La scoperta del Vero nella certezza dello spazio misurabile
Dante lo sentiva: mescolando il volgare toscano e le sfumature romanze, stava costruendo (sì, proprio in senso architettonico) la lingua che sarà di Petrarca, Boccaccio e degli altri. Giotto, dall’altra parte, levigava le rigidità bizantine e, come sottolinea Antonio Paolucci, «andava formando la lingua figurativa che, dopo di lui, porterà a Masaccio o a Raffaello». Perché una delle grandi intuizioni del Bondone l’ha spiegata Roberto Longhi nel suo saggio Giotto spazioso: «La scoperta del Vero nella certezza dello spazio misurabile». Il vero, il grande insegnamento di san Francesco, che, a differenza di Dante (legato a un’ottica teologica à la san Tommaso), Giotto assorbe e trasforma in un terremoto capace di scuotere dall’ interno le Madonne ancora irrigidite dalla lezione bizantina (come quelle di Duccio), di rivitalizzare il corpo di Cristo in croce, di far vibrare le figure dentro una spazialità che cerca armonia, prova a rimuovere l’angustia della bidimensionalità. Una rivoluzione etica. Per inciso, pare che Giotto abbia avuto dei figli di cui due di nome Francesco e Chiara.