Pino Corrias, Blog in “Il Fatto Quotidiano”, 7 VI 2018
Sembra politica, è solo una fiction
E se la politica che tanto ci appassiona fosse solo uno spettacolo? Uno stordimento seriale? Un pieno di parole che serve a riempire il vuoto?
Nel pianeta delle molte guerre, delle crescenti diseguaglianze, delle epidemie, delle estreme povertà, noi italiani bianchi abitiamo nella cuccia calda dell’Occidente, garantiti da una casa con acqua potabile, energia elettrica, medicine, quasi sempre un lavoro, quasi sempre una pensione. Oltre a una quota crescente di tempo libero, e dunque assediati dall’obbligo di smaltirlo insieme con il suo principale effetto collaterale, la noia, malattia degli dei, e i suoi derivati: spaesamento, depressione, accidia.
Per fronteggiare le pervasive nuvole del tempo libero, consumiamo – oltre a una quota crescente di benzodiazepine, alcol, droghe, mode di lontane culture, dal buddismo portatile al veganesimo da supermercato bio – una infinità di storie, massicciamente prodotte dalla tv, dagli smartphone, dalle playstation, dalla Rete. E poi – ma sempre meno – da cinema, libri, giornali. Muovendo una quarantina di miliardi l’anno di euro per garantirci tutti i racconti possibili fabbricati dall’industria dell’intrattenimento. Siamo di bocca buona. Ci appassionano le storie di pura evasione, navi stellari, super eroi, vampiri, regine che si sposano, attori che divorziano, madonne che piangono. Qualche volta persino storie che (forse) ci riguardano.
Specialmente quelle fabbricate con e dalla politica assuefatti ormai a questa campagna elettorale permanente, che scompone e ricompone maggioranze, elabora contratti, promette o disdice, anziché agire. Nella forma che consumiamo, la politica è diventata un genere quasi del tutto televisivo, con ricadute automatiche su tutti gli altri mezzi, magari in forma di polemica con il punto esclamativo, di rissa o scandalo. È un intrattenimento allestito con poche scenografie, nessun costume di scena, un po’ di cipria e un po’ di chirurgia plastica, quando serve, nessun copione, molta improvvisazione, un centinaio di facce che girano sui teleschermi in differenti orari del giorno e del palinsesto, come i piloti di un circuito che non si ferma mai, salvo per il cambio gomme, quando piove. Si tratta di un intrattenimento orale, a basso costo, come lo era quello intorno al fuoco dei tempi remoti, ma stavolta pubblico, dunque nazionale, che procede per titoli temporanei sostituiti da altri titoli temporanei, che lampeggiano, si spengono, ricompaiono, dall’articolo 18 all’indulto, passando per il condono, le pensioni d’oro, la casta, i vitalizi, eccetera.
Un racconto a puntate quotidiane, spregiudicato nella sintassi, sorprendente negli intrecci, trattandosi per lo più di puntate senza conseguenze, senza memoria, che ricominciano ogni giorno in un punto a caso del circuito: Ius soli, riforma Fornero, immigrazione, sì Tav, no Tav, reddito di cittadinanza, ma non subito, flat tax, vediamo quando, debito pubblico da risarcire, anzi no, aumento dell’Iva da scongiurare, anzi no. Dove le cose che vengono dette – a proposito di alleanze, progetti di legge, riforme, statistiche economiche, sondaggi, rendiconti – non sono quasi mai del tutto vere, né del tutto false. Ma sempre verosimili. E salvo eccezioni, inverificabili, perché manca la voglia, manca il tempo, manca l’attenzione del pubblico, preme la pubblicità: “Ci rivediamo tra pochi minuti, state con noi”.
È uno spettacolo che suscita contemporaneamente innamoramento e insofferenza. Attrazione e ripulsa. Con un sovrappiù, magari incoerente, magari involontario, di frustrazione che fermenta in rabbia. Una rabbia sorda, sottocutanea, che fluisce, si accumula, si guasta. Ci guasta. Specialmente a causa del sospetto che lo spettacolo serva a riempire la superficie del nostro tempo vuoto – ancora lontano da guerre e carestie del mondo vero – mentre i bulloni e le viti che tengono in piedi il palcoscenico, vengano strette altrove, da meccanismi non del tutto lontani da noi, ma neanche troppo vicini. Imponderabili. Come le misteriose tubature che corrono tra i palazzi di Bruxelles, Washington, Pechino, le banche centrali, le agenzie di rating, i fondi planetari che spostano, in un battito d’ali, miliardi di dollari da un punto all’altro del pianeta, come fa cento volte al giorno BlackRock, il più grande fondo di investimenti al mondo, un patrimonio di 6 mila miliardi di dollari, tre volte il Pil dell’Italia intera. Colossi che emettono conseguenze sulle nostre vite a ogni impulso, ma del tutto silenziosi, navi stellari che ci sovrastano senza spiegarci nulla. In perfetto contrasto con la valanga di parole che ci stordisce. E finalmente ci distrae dalla noia. Ma niente affatto per secondi fini. Il primo basta e avanza.