Francesco Merlo, Repubblica, 8 IX 2017.
Mario Cucinella e il Belice: “Tra arte e scienza, può rinascere come una nuova Firenze di Brunelleschi”
Gli architetti e le città. Viaggio con il progettista [più Giuseppe Messina e Vincenzo Zummo] a Gibellina e dintorni: “Le opere post-sisma di Burri e Consagra sono fantasmi nel deserto, costruiamoci l’università”-
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GIBELLINA (TRAPANI) – “Dove meglio del Belice si potrebbero progettare le città del futuro?”. Con Mario Cucinella, che dirige il padiglione Italia della Biennale ed è responsabile della zona rossa di Camerino, siamo a Gibellina, ma non per onorare il cinquantesimo anniversario del terremoto come romanzo di formazione degli architetti dell’Italia moderna che qui si accanirono a costruire “capricci edilizi sotto la direzione imperiale ” di Ludovico Corrao. “Siamo venuti – dice Cucinella – a vedere quel che non si deve mai più rifare, ma anche a immaginare il buono che, nonostante tutto, si può ancora fare: l’università del Belice per cominciare, un’estensione del dipartimento di Ingegneria civile. E forse sarebbe meglio chiamarlo “Centro di ricerca internazionale sul terremoto” in tutti i suoi aspetti: geologici, di tecnologia dei materiali, sismici, architettonici e urbanistici. La sede principale potrebbe essere uno degli edifici fantasma che l’architettura accademica di quegli anni ha prodotto a Gibellina. Mentre, a Roma, il governo dovrebbe nominare un ministro per la Ricostruzione, qualcuno che finalmente sia più forte della burocrazia che è la negazione della responsabilità, il labirinto delle cattive azioni senza autore”.
Il 15 gennaio 1968 cominciava, con un terremoto, l’anno di tutti i terremoti ma, “nonostante la voglia di modernità dell’epoca, in 50 anni non siamo riusciti a imparare nulla e ad ogni nuovo brivido della terra si riparte da qui, dal Belice delle baracche di Stato. Non appena il gran cuore della terra batte un po’ più forte la casa torna a uccidere gli italiani che la abitano. Pensa allo scandalo di Ischia e alle 27mila domande di condono. Non è mai la terra che uccide ma sono i muri, le travi, le pietre a cui il sussulto restituisce il diritto di gravità. Eppure ci sono paesi, come il Giappone, dove di terremoto non si muore più, perché ogni terremoto è un insegnamento per il prossimo che verrà. Noi invece abbiamo fatto solo poesia, e l’architettura nel Belice si è accanita non nel servire la scienza delle costruzioni e delle distruzioni, ma nelle prove d’autore”.
Quello del Belice fu il primo terremoto mediatico. Il mondo scoprì la grande miseria dei poveri italiani che “contro le tempeste dell’aria e della vita avevano edificato case-rifugi a due e a tre piani, agglomerandosi gli uni sugli altri, con gesso e canne, travi e pietre”. Vincenzo Messina, giovane e colto architetto che insieme a Giuseppe Zummo, ex assessore alla Cultura, riccio di capelli e di pensieri, e anche lui architetto gibellinese, ci accompagna, mi racconta quel che suo padre, ancora due settimane prima della catastrofe, diceva di quei fabbricati addossati l’uno sull’altro sin quasi al torrente Gebbia: “Solo un terremoto ci può salvare “.
Fu il terremoto delle distruzioni con la dinamite e dell’abbandono di interi territori che forse potevano essere recuperati, il terremoto delle città ricostruite altrove: Gibellina Nuova, Poggioreale nuova… “Il primo provvedimento dello Stato – continua Messina – fu offrire il biglietto a chiunque volesse scappare, emigrare. Ma quelli che emigrarono in Australia oggi vorrebbero pagare il restauro di una chiesa nella vecchia Poggioreale che, rovina tra le rovine, non è morta perché è un ricordo, la reliquia santificata di un bene perduto”. Per restaurarla “bisognerebbe intevenire – dice Cucinella – anche negli edifici accanto, e non è un lavoro da poco”. Nel territorio della vecchia Gibellina c’è una chiesa restaurata da uno degli architetti di Corrao: non ci va mai nessuno ed è ormai sconsacrata.
Dopo quasi cinquant’anni, la vecchia Poggioreale è ancora lì, città sventrata che il tempo e il vandalismo hanno martoriato più del terremoto. Ha le strade, e la skyline è un merletto di macerie oltre le quali l’occhio si perde lungo il paesaggio ondulato della Sicilia gialla macchiata di verde che, in un tripudio di luci e di profumi, in basso arriva al mare e in alto alle pale eoliche che fanno vento – dicono – alla mafia. “Qui ogni tanto – mi spiegano i vigili del fuoco – noi ci esercitiamo. E “noi” vuol dire i colleghi di tutta l’Europa”. Cosa combinate? “Venga che le faccio vedere”.
Penetriamo dentro case sventrate dove i pompieri “salvano” manichini coperti da tegole e mattoni. Si arrampicano dentro tronconi di case scoperchiate e, tra i detriti di tufo e di pietra, imbracano barelle per “ricoverare” fantocci di pezza in altri edifici classificati come resistenti e perciò adibiti a improvvisate infermerie. E addestrano i cani fiutatori di rovine. “Potrebbe diventare – mi dice Cucinella – uno dei laboratori dell’Italia sismica. Si potrebbero stressare i palazzi ancora in piedi e studiarne la resistenza: edifici-palestre per ingegneri, geologi, esperti della tecnologia dei materiali. Qui si potrebbero formare competenze e professionalità speciali, capire come mettere in sicurezza la pietra e come i mattoni, dove usare le catene e dove invece immettere carbonio, acciaio e alta tecnologia. Pensate se, oltre all’arte romantica, nel Belice avessimo fatto scienza della prevenzione. Ci sono edifici che, con poco lavoro, potrebbero diventare alcuni di quei dieci prototipi di cui parla Renzo Piano per la “rigenerazione” delle città italiane. E ci sono anche le macerie-palestre di Santa Margherita, di Salemi, di Vita, Salaparuta, Santa Ninfa”.
A caccia della sede dell’eventuale “Centro studi” visitiamo il Palazzo Di Lorenzo che Francesco Venezia terminò nel 1987. Nel cortile espone il nobile avanzo di un edificio della vecchia Gibellina. Non c’è mai nessuno e anche farsi aprire non è semplice. Il fabbricato è ampio e strano, “fosse un modellino in cartapesta farebbe la sua figura in qualsiasi Biennale, ma qui è una pazza creazione nel deserto”. Nel cortile e nei corridoi due cani inseguono uno stormo di piccioni e riescono pure a divorarne uno. La solitudine di questo territorio senza abitanti (“quattromila, sulla carta” dice il sindaco, Salvatore Sutera, un medico che non sa dove trovare i soldi per le manutenzioni) è consegnata all’arte e a qualche mostra che periodicamente celebra l’estetica del degrado, l’inferno come poesia, la storia di un mondo che prima del terremoto non aveva storia. Mi racconta Leonardo Agate che fu segretario comunale di Corrao: ” Il sindaco – così lo chiamavo mentre lui mi chiamava professore – una volta fece venire Le Théâtre du Soleil, avanguardia parigina. Firmai io la delibera e ricordo che l’esibizione costò circa 300 milioni di lire. C’erano un po’ di spettatori locali e circa 500 invitati di Corrao che venivano da Palermo: a stare larghi un pubblico di 600 persone, quasi tutti non paganti. Gli attori si esibirono nudi. Ma il vero protagonista era sempre lui, il sindaco, con il suo cappello, il suo abito di lino bianco, il mantello, gli occhiali scuri, il magico carisma “.
“Usare il terremoto come palcoscenico è una tentazione comprensibile, purché si rimanga entro certi limiti” dice Cucinella. Sotto la grande stella di Consagra “che è molto bella” le coppie di sposi si mettono in posa per la foto-matrimonio.
E ora passeggiamo in quello che doveva essere il sistema delle 5 piazze di Franco Purini e Laura Thermes, marito e moglie: “C’è una grande densità di segni e di rimandi che in un mondo rurale eccitano l’estraneità, sono illeggibili, e infatti nessuno mai se n’è davvero appropriato. Ed è strano che Corrao non abbia capito che la città si fa con gli altri. La prima volta che vidi tutte queste opere stentavo a riconoscere quello che i libri e i professori universitari ci avevano descritto. Nella realtà sono spazi abbandonati, edifici solidi che non sono mai serviti a nulla, simulacri di fantasie accademiche buone, forse, per le piazze della Roma antica “.
Chiedo come mai tanti architetti italiani lavorino in coppia coniugale. Si mette a ridere: “Io mi sono salvato divorziando dalla moglie architetto”. Poi ci ripensa: “Forse perché la professione ci prende così tanto che finiamo con lo sposare qualcuno che conosciamo in studio, come fanno i medici ospedalieri con le caposala e i piloti con le hostess”. Cucinella è di Cinisi, il paese di Peppino Impastato: “Quando usci il bellissimo film I cento passi intervistarono gli abitanti di Cinisi, tra cui un mio zio che, alla domanda sulla mafia, rispose: non esiste. Povero zio, aveva bisogno di non capire”.
Figlio di un carabiniere che si trasferì a Piacenza e si mise a fare bottoni, Cucinella è cresciuto a Genova, “la citta di mamma”. Capocantiere al Lingotto è l’allievo di Renzo Piano che “mi regalò tavoli e sedie del mio primo studio a Parigi “. Adesso è l’architetto della sostenibilità e del risparmio energetico, ha costruito a Gaza, e nell’Emilia terremotata una scuola elementare di legno (a Guastalla) e il liceo musicale (a Pieve di Cento) in legno e mattoni. A Milano farà la torre Unipol, e un nuovo edificio, tutto in vetro, del San Raffaele. Ha un grande progetto nel centro di Catania, lavora in Cina e a New York, e a Bologna ha fondato una scuola post universitaria che si chiama Sos, specializzata nell’architettura dei territori d’emergenza.
Visitiamo a Gibellina il municipio di Gregotti e Samonà, poi ci spostiamo nella Poggioreale nuova e, nella piazza rococò di Paolo Portoghesi, “di nuovo la mente si smarrisce”. Tra capitelli e statue ellenizzanti perdiamo pure i cani che ci avevano sempre seguito. Torniamo allora a Gibellina dentro il teatro di Consagra che non è stato mai completato, una grandissima struttura di cemento “che potrebbe rimanere così, non edificio ma scultura, visto che Consagra era un artista e questa è un’opera di brutalismo, senza più il respiro corto dell’accademia, ma con una sua bellezza che è tensione e originalità delle forme “. Cucinella lo trasforma, nel disegno che pubblichiamo, nella sede dell’Università del Belice. L’edificio monumentalizza gli anni del cemento e del “Belice come welfare, visto che qui sono stati spesi 15 miliardi di euro e chissà quanto è andato alla mafia e quanto alla confraternita degli architetti dell’epoca”. Il teatro di Consagra, convertito in sede universitaria, “sarebbe l’arte che finalmente si coniuga con la scienza nella grande tradizione italiana, da Brunelleschi a Nervi. Pure Corrao ne sarebbe contento”.
Di cemento bianco è la spettacolare copertura delle rovine della vecchia Gibellina, il famoso cretto di Burri. Lo hanno completato adesso con un’estensione totale di 90mila metri quadri. Sul cretto incontriamo Oliviero Toscani con il suo allegro gruppo di lavoro. Fotografa anche con il drone nell’abbaglio del mezzogiorno, e poi nel lindore della luna piena a mezzanotte: “Mi hanno commissionato un libro su una città e ho scelto questa meraviglia che della città ha la pianta, il centro, gli angoli in ombra e persino la periferia degradata. È la rivincita dell’uomo sulla natura che uccide “. Cucinella trova il cretto “bellissimo: è il trionfo del vituperato cemento che qui si adagia nel paesaggio come fosse un’altra vigna, e a volte sembra formaggio, a volte burro”. La parte vecchia del cretto è ingrigita, ci crescono persino i capperi, c’è pure un buco dentro al quale si vede la rovina di una casa: “Anche il cretto aveva bisogno di manutenzione. Avrebbero dovuto ogni tanto ripassarlo con la calce, tenerlo sempre bianco e pulito dalle erbacce. E forse basterebbe amarlo di più. Sono sicuro che, se nascesse davvero l’università internazionale del terremoto, il cretto diventerebbe lo spazio pubblico identitario della Città-Belice come la torre Eiffel a Parigi, il Big Ben a Londra e magari i ragazzi di Gibellina, ogni due o tre anni, verrebbero qui, con la calce e il pennello, a pulire casa”.