Dagospia, 9 V 2022
IL FILM PIÙ ATTUALE, PIÙ DEVASTANTE, PIÙ DIVERTENTE? DURA 35 MINUTI; È “LA RICOTTA” DI PASOLINI
GIRATO NEL 1963, PASOLINI TOCCA QUI IL VERTICE DEL SUO ANTICONFORMISMO INTELLETTUALE E LA SUA CREATIVITÀ STA A PARI CON “LA DOLCE VITA” DI FELLINI – SCENA MADRE: PASOLINI INTERPRETATO DA ORSON WELLES CHE TUONA CONTRO DESTRA E SINISTRA: ‘‘L’ITALIA HA IL POPOLO PIÙ ANALFABETA E LA BORGHESIA PIÙ IGNORANTE D’EUROPA’’. AL CENTRO DEMOCRISTO: ‘’L’UOMO MEDIO È UN PERICOLOSO DELINQUENTE, UN MOSTRO. RAZZISTA, COLONIALISTA, SCHIAVISTA, QUALUNQUISTA’’
Quando a una certa ora della notte il sonno stenta ad accompagnarti in camera da letto e cominci a cercare sulle piattaforme qualcosa di eccitante ma che non sia tale da scavallare la mezzanotte e trovi sulla sempre benedetta Mubi dedicata al cinema d’autore, all’interno di Prime Video, “La Ricotta” di Pasolini, quarto episodio del film RoGoPaG (gli altri tre sono firmati da Godard, Rossellini e Gregoretti), ebbene, davanti a quel capolavoro inatteso, vorresti che il film non finisse mai.
Perché di colpo comprendi che l’opera più travolgente e sconvolgente che squarcia il buio del nostro presente è datata 1963 e ripescandola rappresenta anche il modo migliore di celebrare il centenario di Pasolini, qui autore di un film perfetto e politicamente devastante.
La voce dello scrittore fa da prefazione al suo film: “Non è difficile predire a questo mio racconto una critica dettata dalla pura malafede. Coloro che si sentiranno colpiti infatti cercheranno di far credere che l’oggetto della mia polemica sono la storia e quei testi di cui essi ipocritamente si ritengono i difensori. Niente affatto: a scanso di equivoci di ogni genere, voglio dichiarare che la storia della Passione è la più grande che io conosca, e che i testi che la raccontano sono i più sublimi che siano mai stati scritti”.
Incuriosito e sorpreso googlo “La ricotta” e mi succhio la trama su Wikipedia: “Nella campagna romana, una troupe è impegnata nelle riprese di una passione di Cristo. Stracci, la comparsa che interpreta il ladrone buono, regala ai propri familiari il cestino del pranzo appena ricevuto dalla produzione. Essendo affamato, si traveste da donna per rimediare un secondo cestino, che viene mangiato dal cagnolino della prima attrice del cast. Sul set giunge intanto un giornalista che intervista il regista; terminata l’intervista, il giornalista trova Stracci che accarezza il cane e glielo compra per mille lire. Con i soldi, Stracci corre dal “ricottaro” dei dintorni a comprarne tutte le rimanenze per sfamarsi, ma viene chiamato sul set e legato alla croce per la ripresa dei lavori; alla successiva interruzione, corre a mangiare la ricotta e, sorpreso dagli altri attori, viene invitato ad abbuffarsi con i resti del banchetto preparato per l’ultima cena. Al momento di girare la scena della crocifissione, muore di indigestione sulla croce. Il regista, senza ombra di commozione, commenta: “Povero Stracci. Crepare… non aveva altro modo per ricordarci che anche lui era vivo…”.
Affamato di “Ricotta”, in completa estasi visiva, inizio a vedere il film mentre azzanno sul sito, centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it, il testo di Massimiliano Valente: “Un altro film fuori dagli schemi di una rappresentazione tradizionale e di una iconografia asservita. Un altro lavoro, dopo Accattone e Mamma Roma, nel quale il fine primo dell’autore è quello di trasmettere messaggi politico-sociali; nel quale non sono da sottovalutare tuttavia alcuni elementi che cercherò qui di seguito di mettere in luce.
Vi sono alcuni segni “forti” della grande ricchezza culturale di Pier Paolo Pasolini: le citazioni figurative (l’accostamento alle pale d’altare di Rosso Fiorentino e del Pontormo); i richiami filmici che ha inserito nella sua opera (alcune sequenze accelerate sia nelle immagini sia nella musica ricordano il film muto e in particolare il primo Chaplin, amatissimo da Pasolini); l’utilizzo sempre sapiente della musica: un Dies Irae arcaico, un Sempre libera degg’io dalla Traviata di Verdi – titolo oltremodo significativo se solo si consideri l’effettivo grado di libertà dei figuranti e di Stracci, il protagonista che recita la parte del Ladrone buono (e ancor più significativo se si fa attenzione alla trasformazione subita da quest’ultimo brano: una grottesca, quasi parossistica accelerazione che trascina la musica in un’irrefrenabile accelerazione che si avvita su se stessa…).
È il terzo film di Pasolini e in esso, ancora una volta, il registra privilegia una storia che fa capo agli strati più umili ed emarginati della società – tutte le comparse, i generici, i figuranti del “film nel film” la cui storia viene narrata (e che rappresenta la Passione di Cristo) sono dei sottoproletari, dei “morti di fame” in senso letterale, come ci dirà lo stesso Pasolini attraverso l’”enorme mangiata” di ricotta rappresentata quasi a conclusione del film e della vita stessa di Stracci. Ma compare anche la borghesia, nei panni rozzi e volgari del produttore e del suo entourage (avvistiamo Tomas Milian, Andrea Barbato, Giuliana Calandra, Adele Cambria, Elsa de’ Giorgi, Gaio Fratini, John Francis Lane, Letizia Paolozzi, Enzo Siciliano). E viene anche “messa in scena” l’”integrazione sociale” cui sembra essere pervenuto il regista “marxista” (interpretato da Orson Welles)”.
Continua Valente: “La pellicola fu sequestrata con l’imputazione di “vilipendio alla religione di Stato” (1963): nelle numerose pagine di questo sito se ne parla molto ampiamente. Ne seguì un processo nel quale, tra l’altro, il Procuratore della Repubblica Di Gennaro presentò ai “cattolici benpensanti” il film come “il cavallo di Troia della rivoluzione proletaria nella città di Dio”.
Sull’onda delle vicissitudini giudiziarie, al film saranno apportati alcuni tagli: le tre ripetizioni de “la corona!”, lo spogliarello della generica che interpreta la Maddalena, la risata dell’attore generico che interpreta Cristo; si sostituisce l’ordine “via i crocefissi!” con “fare l’altra scena!”, l’espressione “cornuti” con “che peccato”, la frase finale “povero Stracci, crepare è stato il suo solo modo di fare la rivoluzione” con “povero Stracci! crepare, non aveva altro modo di ricordarci che anche lui era vivo”!
Soltanto nel maggio 1964 la Corte d’appello di Roma, accogliendo il ricorso di Pasolini, assolverà il regista perché “il fatto non costituisce reato”. Le critiche e le motivazioni della persecuzione giudiziaria, come Pasolini stesso aveva previsto, erano dettate dalla malafede. Pasolini aveva diretto, in effetti, attraverso questo film, un attacco frontale nei confronti della borghesia e questo era il motivo vero che scatenò ancora una volta la canea nei suoi confronti. Il senso di questo attacco è contenuto essenzialmente nelle parole qui sotto riportate, pronunciate dal regista-Orson Welles e dirette al giornalista che gli chiede una intervista:
Giornalista: “Che cosa vuole esprimere con questa sua nuova opera?”
Regista: “Il mio intimo, profondo, arcaico cattolicesimo.”
Giornalista: “Che cosa ne pensa della società italiana?”
Regista: “Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa.”
Giornalista: “Che cosa ne pensa della morte?”
Regista: “Come marxista è un fatto che non prendo in considerazione.”
Il regista-Orson Welles, tenendo tra le mani il libro “Mamma Roma”, legge una fulminante poesia di Pasolini (Io sono una forza del passato… da ”Poesia in forma di rosa”)
Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l’Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io assisto, per privilegio d’anagrafe,
dall’orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno di ogni moderno
a cercare fratelli che non sono più
Dopodiché, Orson Welles/Pasolini inizia a perculare il giornalista (mentre quest’ultimo idiotamente ride):
“Lei non ha capito niente perché lei è un uomo medio: un uomo medio è un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, razzista, schiavista, qualunquista. Lei non esiste… Il capitale non considera esistente la manodopera se non quando serve la produzione… e il produttore del mio film è anche il padrone del suo giornale… Addio.”
In un breve scritto del 1961, Pasolini così si espresse: “Nulla muore mai in una vita. Tutto sopravvive. Noi, insieme, viviamo e sopravviviamo. Così anche ogni cultura è sempre intessuta di sopravvivenze. Nel caso che stiamo ora esaminando [La ricotta] ciò che sopravvive sono quei famosi duemila anni di “imitatio Christi”, quell’irrazionalismo religioso. Non hanno più senso, appartengono a un altro mondo, negato, rifiutato, superato: eppure sopravvivono. Sono elementi storicamente morti ma umanamente vivi che ci compongono. Mi sembra che sia ingenuo, superficiale, fazioso negarne o ignorarne l’esistenza. Io, per me, sono anticlericale (non ho mica paura a dirlo!), ma so che in me ci sono duemila anni di cristianesimo: io coi miei avi ho costruito le chiese romaniche, e poi le chiese gotiche, e poi le chiese barocche: esse sono il mio patrimonio, nel contenuto e nello stile. Sarei folle se negassi tale forza potente che è in me: se lasciassi ai preti il monopolio del Bene”. (Angela Molteni, www.pasolini.net).
Citazioni tratte da AA.VV., Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, a cura di Laura Betti, Garzanti, Milano 1977.
Alfredo Bini, produttore del film, deponendo al processo per vilipendio contro la religione dello Stato, intentato dal P.M. Di Gennaro contro Pier Paolo Pasolini, disse: ‘’La ricotta è una denuncia della decadenza morale dell’uomo contemporaneo. Pasolini si serve di uno dei simboli del cristianesimo, la passione di Cristo, per rappresentare, attraverso l’immoralità della troupe di quel set cinematografico, il vero Cristo: Stracci. Stracci ha una duplice funzione: rappresenta il sottoproletario sacrificato al vuoto borghese, e rappresenta l’incarnazione reale e contemporanea del Cristo. Stracci viene sacrificato, condannato a morte dalla ferocia di un mondo gretto e teso al consumo a tutti i costi.
Dirà Pasolini di questo film: “L’intenzione fondamentale era di rappresentare, accanto alla religiosità dello Stracci, la volgarità ridanciana, ironica, cinica, incredula del mondo contemporaneo. Questo è detto nei versi miei, che vengono letti nell’azione del film […]. Le musiche tendono a creare un’atmosfera di sacralità estetizzante, nei vari momenti in cui gli attori si identificano con i loro personaggi. Momenti interrotti dalla volgarità del mondo circostante. […]
Col tono volgare, superficiale e sciocco, delle comparse e dei generici, non quando si identificano con i personaggi, ma quando se ne staccano, essi vengono a rappresentare la fondamentale incredulità dell’uomo moderno, con il quale mi indigno. Penso ad una rappresentazione sacra del Trecento, all’atmosfera di sacralità ispirata a chi la rappresentava e a chi vi assisteva. E non posso non pensare con indignazione, con dolore, con nostalgia, agli aspetti così atrocemente diversi che una sì analoga rappresentazione ottiene accadendo nel mondo moderno”.
Pasolini fa largo uso di riferimenti a pittura e letteratura. Le Deposizioni del Rosso Fiorentino e del Pontormo vengono prese a esempi figurali; il Dies Irae accompagna molte scene del film; Orson Welles recita una poesia dello stesso Pasolini. Il film è girato tra la via Appia Nuova e la via Appia Antica presso la sorgente dell’Acqua Santa nell’autunno del 1963. Sullo sfondo le infinite distese dei palazzoni delle borgate romane, le stesse borgate di Ragazzi di vita, di Tommasino, di Accattone, di Mamma Roma, la stessa umanità antropologicamente identificata con i sottoproletari, ma un diverso approccio autobiografico e religioso. Quel set rappresenta per Pasolini il tempio invaso dai mercanti.
Il testo di Massimiliano Valente (http://www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it), si conclude così: “Il film fu accolto con freddezza dalla critica, e la ragione va ricercata nelle parole di Moravia: “La chiave del mistero va ricercata, secondo noi, oltre che nell’impreparazione culturale di molti critici, anche nella ingenua mancanza di tatto di Pasolini. Diamine: il regista nell’intervista dichiara: ‘L’Italia ha il popolo più analfabeta e la borghesia più ignorante d’Europa’, ed ecco che scontenta così i partiti di destra come quelli di sinistra. Poi, peggio ancora, Orson Welles rincara: ‘L’uomo medio è un pericoloso delinquente, un mostro. Esso è razzista, colonialista, schiavista, qualunquista’, ed ecco scontentati tutti quanti. L’Italia del passato, infatti era il paese dell’uomo, in tutta la sua umanità; l’Italia di oggi, invece, è soltanto il paese dell’uomo medio”.
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Fulvio Abbate per Dagospia, 11 V 2022
PASOLINI E’ VIVO
Caro Robertino, ti do un dolore: non sei l’unico a ritenere “La ricotta”, lo dico con parole semplici, il più bel film di Pier Paolo Pasolini. Una macchinina poetica perfetta, carburazione elegiaca straordinaria, un aggeggio cinematografico composto, disegnato con il doppio decimetro, con il cacciavite, appunto, della sua poesia.
Su tutto, la corona di spine destinata alla scena della crocifissione, custodita dagli attrezzisti dentro un cartone di salsamenteria o forse un cestino destinato al pranzo della troupe, marchio “Federici”, lì Roma trova il suo assoluto.
Così come l’intera scrittura del film, perfetta come un componimento mozartiano. A proposito di Mozart, Pasolini ne riteneva la musica segnata da “allegria funebre”. Forse lo stesso sentimento che trovi ne “La ricotta”.
Certo, noi – io, tu e molti altri – di quel suo lavoro riconosciamo una sincerità espressiva assoluta, che suscita tenerezza, di più, compassione come il bambino del portinaio che, d’inverno, fa i compiti nel buio della guardiola.
Straordinari i figuranti accampati sul set, e le comparse, gli angeli, cherubini e serafini, che ballano il twist, nel modo più rionale, come fossero davanti ai jukebox di un baretto di allora o piuttosto nei locali della sezione del Partito comunista italiano di Pietralata, in occasione della festa de l’Unità del 1963; Pietralata è il quartiere che vanta la squadra “comunista” dell’Alba rossa.
Pochi film sanno essere così cristologicamente perfetti come “La ricotta”, molto di più del “Vangelo Secondo Matteo”, sempre suo, con Mario Cipriani, Stracci, il protagonista, faccina da manovale preso, “capato”, direbbero tra i banchi di Porta Portese, dallo smorzo della vita romana. Per i dettagli filologici, aggiungiamo che Pasolini nel film omaggia ora Rosso Fiorentino ora Pontormo ricostruendone, come in un tableau vivant, la deposizione e la crocifissione.
Perfino le forzature, le voci dell’aiuto regista che urla: “Inchiodateli!”, “Schiodateli!” sono lì perfette, assomigliano a loro volta alle fermate della Via Crucis che tra acquasantiere e confessionali di noce scura costellano le pareti delle chiese di borgata, solitamente affidate a modeste mani di artisti che stilizzano tutto come farebbe Bernard Buffet.
Nel film, lo si è detto, c’è un manifesto ideologico pasoliniano o forse si tratta di una semplice constatazione antropologica, affidato a un Orson Welles seduto nella sua sedia da regista, Pasolini gli fa dire infatti cosa pensa dell’Italia: “Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa.”
Il film è del 1963, anno del varo del primo governo di centro sinistra, nonché di fondazione del movimento letterario omonimo, il Gruppo 63, appunto. I socialisti di Nenni, in quei giorni, sulla tessera del loro partito, accanto a falce martello libro e sole nascente, vollero mettere anche il disegno di un’autostrada, e l’“Avanti!” titolò: “Da oggi ognuno è più libero”.
Nel 1991, Laura Betti pubblicò un libro dedicato al cinema di Pasolini, “Le regole di un’illusione”, nel capitolo dedicato a “La ricotta”, citando il precedente del “Vangelo”, Pasolini scrive che il film è “una variante della stessa suite come può essere allegro rispetto all’adagio”, e parla di Stracci come di “un santo”, c’è poi il trattamento e il racconto dei processi subiti.
Alfredo Bini, il produttore, racconta di avere preso a pugni Pasolini perché questi, nottetempo, si presentò alla “Fono Roma” in fase di doppiaggio per modificare il cognome del giornalista ottuso che intervista Orson Welles, utilizzando quello di un giudice che lo aveva denunciato per oscenità, Pedote o Pedoti. Bini racconta che si menarono di brutto.
Con un trenino degli anni Cinquanta messo a disposizione dalle ferrovie, era il 1995, andammo a Ciampino per ricordare Pasolini nel ventennale della morte. Prima di raggiungere la trattoria per festeggiare, appunto, con una ricotta offerta dal Fondo, si svolse una partita di calcio, sempre in ricordo di Pasolini: politici contro magistrati. In campo, tra i politici Veltroni e D’Alema, tra i magistrati invece Gherardo Colombo. Quel giorno, le telecamere di “Striscia la notizia” colsero il tic di D’Alema che soffiava sui pugni chiusi, e ne nacque un tormentone televisivo di cui forse qualcuno ha ancora memoria. C’erano Franco Citti, Ninetto Davoli e anche Mario Cipriani. Per l’occasione, gli raccontai che il mio amico Mariano l’aveva incontrato davanti a un’autoscuola a Talenti: “Ma lei è Stracci?”. Cipriani e la faccina di sempre, la stessa che mostra lassù sulla croce, un volto bambino vecchio, sorriso mite da borgataro, espressione da gommista malinconico e insieme dolce, arreso a se stesso, alla vita.
Ne “La ricotta” c’è anche Rossana Di Rocco, già l’angelo di “Uccellacci e uccellini” e del “Vangelo”, nel film fa parte della povera famiglia di Stracci, Rossana ha in braccio un bambino, e aspetta, seduta sull’erba tra i ruderi, che arrivi proprio la ricotta. Tra coloro che visitano il set, accanto a Elsa de’ Giorgi, Enzo Siciliano, Adele Cambria e Robertino Ortensi, amico fratello maggiordomo di Mario Schifano.
A proposito del film, Pasolini scrive: “Martedì 5 marzo 1963 mattina: “Era l’inizio del giorno, pochi istanti fa, una luce vecchia, morente, e ora ecco l’azzurro di un golfo del Meridione, nel gelo della tramontana, un giorno che bastava soltanto a scoprire, era su noi, splendidamente remoto da ogni nostra passione”. Nelle note di regia aggiunge: “Il rutto sulla croce non è un rutto, ma un singhiozzo, il singhiozzo di chi, morto di fame il buon Stracci, si è finalmente rimpinzato.”
In quel 1963, a commento dell’arrivo dei socialisti di Nenni al governo, Pasolini scrisse una poesia, “Vittoria”, dove immagina il ritorno dei Partigiani, eccola in coda a questo mio biglietto per te.
segue Vittoria, tratta da Poesia in forma di rosa (1964), Appendice 1964, in Pasolini. Tutte le poesie, Meridiani Mondadori, Milano, 2003 [NdS]