Michele Crudelini, InsideOver, 7 VII 2019
QUEL DUMPING FISCALE DEI PAESI EUROPEI CHE AFFOSSA L’ITALIA
Siamo abituati troppo spesso ad ascoltare critiche contro il sistema Italia. Quelli che sono nati come infondati stereotipi si sono nel tempo cementificati nell’immaginario comune, creando così delle certezze, talvolta prive di fondamento.
Siamo stati abituati ad ascoltare come l’Italia avesse bisogno di una disciplina fiscale più rigida per combattere l’evasione. Abbiamo poi sentito ripetere come un mantra come il livello di corruzione all’interno del settore pubblico italiano rappresentasse un fardello per la nostra economia.
Infine, ci siamo sentiti dire come l’unico antidoto per eliminare o almeno ridurre questi comportamenti devianti fosse la permanenza nell’Unione europea e nell’euro. Un’organizzazione e una moneta capaci di disciplinare le politiche economiche dello Stato italiano. Come interpretare quindi l’ultima relazione presentata dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (Antitrust), che sembra smentire in toto questa vulgata?
Il presidente dell’Antitrust Roberto Rustichelli, alla sua prima uscita in pubblico, ha infatti lasciato esterrefatti i suoi uditori, abituati spesso all’ascolto di relazioni eccessivamente tecniche e poco aperte ad aspetti macroeconomici. Quello che emerge dalla relazione presentata da Rustichelli è un quadro allarmante che mette sotto accusa alcuni meccanismi dell’Unione europea nata dal Trattato di Maastricht e da quello di Lisbona.
Rustichelli non ha dubbi: all’interno dell’Unione europea esistono Stati che esercitano dumping fiscale, sottraendo così possibile gettito ad altri membri dell’Unione. In pratica, ci sono Stati europei che, avvalendosi di una tassazione estremamente leggera e benevola nei confronti delle grandi aziende, avrebbero provocato il trasferimento delle sedi legali e fiscali di queste ultime all’interno dei propri confini. Il risultato? I Paesi di origine delle aziende si sono visti così sottratti cifre considerevoli in termini di entrate fiscali.
I paradisi fiscali europei che danneggiano l’Italia
Rustichelli non si è poi limitato a parlare in maniera generica di un fenomeno, sì conosciuto, ma mai del tutto affrontato nelle sedi competenti e benché meno soggetto alla dovuta attenzione mediatica. Il Presidente dell’Antitrust ha infatti accusato apertamente alcuni Stati dell’Unione europea: il Lussemburgo, l’Irlanda, l’Olanda e il Regno Unito. La presenza di questi paradisi fiscali in mezzo all’Europa oltre a provocare all’Italia una perdita stimata dai cinque agli otto miliardi di dollari all’anno, ha falsato completamente l’andamento degli investimenti esteri che, guarda caso, seguono la geografia della concorrenza fiscale.
In Irlanda gli investimenti esteri sono il 311% del Pil, in Olanda il 535%, mentre nel piccolo Lussemburgo arrivano addirittura al 5.760% del prodotto interno lordo. Una ricchezza smisurata che se confrontata all’Italia, 19% del Pil, smaschera il deflusso di capitale che dalle casse dello Stato italiano si riversa invece verso i paradisi fiscali.
Rustichelli cita a proposito il concreto esempio della più grande azienda automobilistica italiana (Fca), con sede legale a Londra e sede fiscale in Olanda. Se tuttavia il comportamento di imprese private può essere compreso nei termini della ricerca dell’ottimizzazione della produzione, il discorso diventa diverso ragionando in termini di governance europea.
Come conciliare infatti la tolleranza di comportamenti del tutto sleali tra Stati membri, quando d’altra parte vige la più severa intransigenza per il rispetto di parametri che, alla luce della relazione dell’Antitrust, risultano del tutto falsati? Come si può per esempio giudicare in sede europea la solidità dei conti italiani se a questi vengono sottratte cifre tali da poter scrivere un’altra manovra finanziaria? La mancanza di uniformità tra i regimi fiscali europei è un elemento di destabilizzazione economica dei Paesi membri che, se non arginato in tempo, potrà contribuire al collasso dell’istituzione stessa.