Libero Quotidiano, 3 III 2022
Vladimir Putin, perché ha imposto la Foresta vergine per i negoziati
Non esiste al mondo un luogo più affascinante e simbolico – anche sinistramente – che Vladimir Putin potesse scegliere per proseguire i “negoziati” tra Mosca e Kiev, sempre che i negoziati non siano di nuovo rinviati a differenza dei bombardamenti che non conoscono sosta: un negoziato, in linguaggio diplomatico, dovrebbe precedere la stipulazione di un accordo o di un patto di non belligeranza, quindi proprio la fine dei bombardamenti, ma è ciò che per ora credono in pochissimi, soprattutto in Ucraina. Nell’attesa, che Putin abbia scelto proprio la foresta di Bialowieza per avviare un negoziato può avere tre significati possibili: uno probabile, uno improbabile e uno a dir poco luciferino. Quello probabile riguarda il fatto che proprio nella prescelta area naturale di Belavea, l’8 dicembre 1991, ebbe luogo l’accordo appunto di Belavea (altri lo chiamano di Minsk) che in pratica sancì la fine dell’Unione Sovietica come soggetto geopolitico e di diritto internazionale: cioè la fine di tutto, l’Urss non esisteva più e basta, il suo posto fu preso dalla Comunità degli Stati indipendenti (Csi) e l’accordo venne siglato in una gosdacia, che è una delle dacie lussuose degli esponenti governativi; presenti all’accordo erano i leader di Ucraina, Russia e Bielorussia.
SI RIPARTE – Quindi il messaggio, rivolto non soltanto all’Ucraina ma all’intero Occidente, o Patto Atlantico, o Nato che dir si voglia – ma anche ai numerosi ex stati dell’ex Unione Sovietica – potrebbe essere questo: qui abbiamo interrotto e qui ricominciamo, avvertiti tutti, è solo l’inizio, si torna insieme, fine delle libere uscite e trentennali indipendenze che interessarono l’Europa centrale e orientale, si torna all’equivalente del fu-Partito unico, si torna al trattato di creazione dell’Unione Sovietica del 1922 (un po’ come Adolf Hitler che da capo del Terzo Reich volle firmare l’armistizio con la Francia – sconfitta – nel 1940 nello stesso vagone ferroviario, riportato nei boschi vicino a Compiègne, in cui nel 1918 fu siglato quello tra gli alleati e lo sconfitto impero tedesco). Il fatto che un così annunciato e repentino salto indietro della Storia appaia o improbabile, purtroppo, non toglie che sia semplicemente più probabile delle altre due opzioni. Il secondo significato, legato al fatto che Putin abbia scelto proprio la foresta di Bialowieza per avviare un negoziato, infatti, potrebbe più banalmente essere giustificato dall’estrema neutralità e bellezza naturale offerta da una riserva unica al mondo: non tutti sanno, infatti, che quella foresta vergine rappresenta tutto ciò che resta dell’immensa fascia verde che migliaia di anni fa si estendeva in tutto il continente e dove ancora sopravvivono animali di cui non sospettereste nemmeno l’esistenza: i bisonti europei, tra questi.
FORESTA VERGINE – L’area naturale di Belavea in altre parole fa parte della grande Puszca, vecchia parola polacca che significa «foresta vergine» e che nei suoi duecentomila ettari contiene l’ultimo frammento continentale dell’antica foresta primaria di pianura: quella – si perdoni la divagazione – brumosa e sinistra che balenava davanti agli occhi di tanti bambini mentre qualcuno leggeva loro le fiabe dei fratelli Grimm. Qui ci sono frassini e tigli di quaranta metri, e aggrovigliamenti di umidi sottoboschi di felci, ontani e funghi grandi come piatti. Le querce sono immense e le pigne impressionanti. L’aria è fresca, pesante e silenziosa quando non lacerata dal gracchiare dei più vari uccelli o immancabilmente dall’ululare dei lupi. E qui, molto lentamente, sinuosamente, rischiamo di avvicinarsi al messaggio più luciferino che qualche mente malata – la nostra forse – potrebbe associare al pensare che l’intera Europa, un tempo, era come questa foresta: ma senza di noi. Perché entrarci significa rendersi conto di quanto l’uomo civilizzato sia assuefatto solo a una pallida copia di quel che la natura intendeva essere.
ABETI ROSSI – Vedere sambuchi con un tronco largo due metri o camminare in mezzo a giganteschi abeti rossi con barbe lunghe come Matusalemme – racconta chi ci è stato – non fa sentire sprecata un’espressione come «ancestrale», da intendersi come misteriosamente familiare. Raccontano, pure, che dopo la Seconda guerra mondiale uno Josif Stalin piuttosto ubriaco cedette alla Polonia i due quinti della foresta: e poco altro cambiò sotto il regime sovietico, se si esclude la costruzione di qualche residenza di caccia per l’élite, tanto che in una di queste dacie, che si chiamava precisamente Viskuli, nel 1991 venne firmata proprio l’intesa di cui stiamo parlando e che dissolse l’Unione Sovietica. È questo il terzo e malsano messaggio: questa meravigliosa foresta è quanto nel giro di qualche secolo tornerebbe a essere l’Europa senza di noi, dopo il commiato seguito a una guerra nucleare. Da entrambi i lati, la popolazione contadina sta già in gran parte abbandonando i terreni coltivati per avvicinarsi alle città. Hanno calcolato che in due decenni tornerebbe il terreno boschivo. E hanno calcolato che dopo cinque secoli la foresta tornerebbe come adesso, forse un po’ meglio, nonostante le radiazioni. Dopo l’accordo appunto di Belavea dell’8 dicembre 1991, dopo Ucraina e Bielorussia, molti altri stati salutarono l’Unione Sovietica. Nel solo dicembre 1991 il Kazakistan, il Tagikistan, l’Armenia, il Turmenistan, poi nel 1992 l’Uzbekistan e il Khirghistan, nel 1993 l’Azerbaigian e la Georgia, nel 1994 la Moldavia. Ora il maestro è rientrato in classe. E sta facendo l’appello.