Isidoro Pennisi*, Live Sicilia, 4 II 2023
Fenomenologia della disonestà intellettuale
Dal caso dell’anarchico Cospito alla guerra in Ucraina. Analisi di un’aporia.
Essere persone oneste, vuol dire alcune cose chiare, conosciute da chiunque e accettate in linea di principio anche da chi, contravvenendole, diventa, per l’appunto, disonesto: non rubare; non mentire per i propri interessi; essere leali. Ed anche altre cose. Che cosa vuol dire, invece, essere intellettualmente onesti? Cioè esserlo, esclusivamente, in quella fase in cui usando l’intelletto esprimiamo i risultati di ciò che osserviamo? Le risposte, in questo caso, non sono così chiare ed evidenti, soprattutto perché, molto spesso, anche un buon intelletto, invece di prenderne atto di ciò che vede, prova a far coincidere ciò che vede con ciò che vorrebbe, nei casi migliori, oppure con ciò che ha in precedenza pianificato di vedere, per vari motivi.
Nulla è peggiore della disonestà intellettuale, perché essa non è avvertita in maniera semplice. In genere, la disonestà intellettuale è coperta dall’autorevolezza del disonesto. Un Poeta famoso e autorevole, se ruba una macchina, è additato come disonesto da chiunque, qualunque sia la sua posizione sociale, culturale, o il grado di alfabetizzazione. Se quello stesso Poeta, però, compie una disonestà intellettuale, la cosa è molto più difficile da far emergere e indicare, perché il solo fatto di avere un’autorevolezza lo mette al riparo da ogni dubbio. Sono sempre più convinto, che il nostro tempo sia asfissiato dalla disonestà intellettuale, su quasi ogni argomento, fatto, vicenda. E questo coinvolge tutti, finanche coloro che, pur avendo la possibilità e l’attrezzatura per scoprirla e denunciarla, si accodano per una romantica abitudine a non disertare dalle posizioni generali assunte nella vita. Due argomenti, secondo me, lo dimostrano.
Dal principio di questo millennio, il nostro Paese è osservato, con attenzione, per il metodo e i risultati cui approderà la forma più avanzata di ritirata costituzionale non convenzionale. In Italia si sta provando un esperimento delicato, non esente da rischi, in cui due poteri costituiti (Governo e Parlamento) agiscono appropriandosi di poteri costituenti. Questa è la questione che, ancor prima dei problemi di merito, il dibattito di questi ultimi vent’anni dissimula disonestamente. Non esiste ormai alcun dubbio, infatti, sulla possibilità di riformare la Costituzione attraverso l’Articolo 138 che invece ne permetterebbe esplicitamente la revisione. I due termini (riforma e revisione) non sono lo stesso fenomeno. Pochi dubbi, dovremmo avere, sulla capacità di utilizzo della lingua italiana, di chi stesse la Carta. Sulle loro reali indicazioni e intenzioni.
Non è questione di grammatica, ma di sostanza di fatti politici immaginati che travalicano l’aspetto giuridico. Per riformare la Costituzione servirebbe un potere costituente che il Parlamento non ha perché esso è uno dei tre poteri costituiti. Far passare una riforma dalle forche caudine dell’Articolo 138 non è legittimo dal punto di vista sostanziale, perché esso è stato pensato per permettere di ridare eventualmente maggiore funzionalità ed equilibrio alla Carta, in rapporto ai cambiamenti sociali e politici, modificando alcune cose che non ne mutino la natura, non solo repubblicana. Una maggioranza parlamentare, determinata da un’elezione ordinaria, può decidere queste correzioni della Carta, ma se si tratta di riformarla, serve una rappresentanza diversa, non convenzionale, commisurata alla decisione da prendere, composta in maniera diversamente rappresentativa, rispetto a quella che è il frutto di elezioni politiche.
Bisogna essere intellettualmente disonesti, per affermare che il Titolo Quinto riscritto nel 2001 sia stata una revisione. E’ tanto vero, ciò che affermo, da generare, per trascinamento, il dibattito di questi giorni, in cui anche chi la formulò, la votò e la porto di fronte alla ratifica popolare, ora lo contesta e la disconosce, solo perché qualcuno ha deciso di mettere la cornice al quadro in precedenza dipinto.
La guerra, per le ecumeni politiche di questo mondo, è ciò che un terremoto è per l’assetto tettonico della Terra. La guerra è la reazione tellurica alle frizioni di geografia politica, di realtà che condividono, come delle placche sociali giustapposte, un pianeta di dimensioni finite, con risorse finite. Anche gli attuali assetti nazionali sono nati attraverso una lunga sequela di conflitti armati. Esattamente come le Alpi e gli Appennini hanno seguito le violente logiche tettoniche per essere ciò che sono, anche l’Italia ha nel suo curriculum politico una lunga serie di guerre.
La guerra è uno dei fenomeni sociali più conosciuti, e su cui, quindi, non è possibile, tranne essere intellettualmente disonesti, non sapere come e perché iniziano, come si svolgono, e come si possono finire. Un esercito e una comunità che nel muovere una guerra di aggressione conquista dei territori poi può solo perderli per la reazione dell’avversario, e non si può immaginare che ciò avvenga volontariamente.
Chiedere, quindi, ai Russi di ritirarsi volontariamente, come condizione per una pace, è intellettualmente disonesto. Una guerra può solo finire in due modi: o con un vincitore e un perdente, che proclama la resa (incondizionata o condizionata) o con un armistizio, chiesto da uno dei due contendenti, e accettato dall’altro, cui segue una trattativa di pace sulla base dei risultati esistenti sul campo. Chi immagina altro, e lo dice, è intellettualmente disonesto.
Spero che quanto prima si trovi nuovamente il senso della misura, piegandosi al dovere di prendere atto della realtà, decifrarla, comunicarla, che piaccia o oppure no. Perché questa è onestà intellettuale. Non voglio farla lunga, ma su Guerra, Ecologia, Riforme Costituzionali, per fare solo esempi caldi, la disonestà intellettuale ormai è la norma, tanto da non poter indicare dove sia un apice. Voglio qui non tacere, in ultimo, una cosa cui sono legato. Lo dico in maniera rozza ma chiara. Pur avendo delle idee precise sulla questione della Giustizia e sulla Detenzione (che non corrispondono a nulla che sia diverso dalla nostra nobile e onorevole Carta Costituzionale) esse non possono inficiare il senso della realtà e la sua misura. Per me è ovvio e senza alcuna possibilità di dubbi, che qualsiasi detenzione che non miri alla riabilitazione, e che al contrario sia, nonostante una condanna definitiva, ancora una misura di prevenzione se non di repressione, non deve avere posto nella nostra società. E’ difficile, ma è un principio su cui non dovremmo mai deflettere. Detto questo, però, io dico che il Regime e le Carceri del 41 Bis non sono come quelle di Long Kesh; Giorgia Meloni non è all’altezza di Margaret Thatcher; la Battaglia ingaggiata dall’IRA contro gli Inglesi non è come la causa Anarchica; Alfredo Cospito, soprattutto, non è Bobby Sands. Questa, per me, è onestà intellettuale o, almeno, un tentativo.
“Illumina il buio di questa cella
rimbomba il tuono della sua forza
il pensiero che mai si dispera
quel pensiero che dice: io sono nel giusto”
(Bobby Sands)
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* architetto, svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di Architettura e Analisi della Città Mediterranea, dove afferisce, e presso il Laboratorio Modelli dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria.