Michele Smargiassi, Repubblica. 7 II 2016.
Il social network prima dei social network. I quarant’anni di Radio Alice
Il 9 febbraio 1976 iniziava a trasmettere la più indisciplinata tra le radio libere. Verrà chiusa a forza un anno dopo, in una Bologna blindata dopo l’omicidio Lorusso.
Alice non è più il diavolo, è una cameretta per bambini. Due, scatenati. La mamma si copre il capo con un velo prima di farci entrare, ospitale, non capisce bene. Proviamo: «Quarant’anni fa, qui c’era una radio… di protesta… venne la polizia e la fece chiudere…». Guarda con stupore la vecchia foto, è proprio la sua camera da letto, ma c’è un mixer. Valerio Minnella intanto gira assorto. «Non è cambiato quasi niente… Ecco, scapparono quasi tutti da lì», indica l’abbaino.
In questi quarant’anni non era mai tornato qui, via del Pratello 41, per tredici mesi casa di Radio Alice. Dieci anni fa qui abitavano due studentesse fuorisede. Oggi, una famiglia pakistana. I luoghi seguono la storia della città. Alice invece morì sulla fenomenale battuta, surreale e dadaista, che alla fine della drammatica diretta della sera dell’irruzione, il 12 marzo 1977 ore 11.25, con la polizia che stava sfondando la porta in assetto da guerra, uscì di bocca all’umore nero di Valerio, che stava al piatto del giradischi: «Ecco qui Beethoven, se va bene bene, sennò, seghe». Umberto Eco ci fece una lezione alla Sorbona.
Ma in questi giorni si ricorda una nascita, non una sentenza di morte, perché fu il 9 febbraio del 1976, quarant’anni fa, che Alice emanò ufficialmente i suoi primi vagiti al suono di “White Rabbit” dei Jefferson Airplane (ma già da mezzanotte occupava le frequenze di 100.6 mhz, e il primo disco ufficioso fu in verità Jimi Hendrix). Nessuno lo sa, ma fu un esordio in differita: «Avevamo registrato, per paura di incasinarci… Mica lo sapevamo, come si faceva una radio libera…». Il nastro andò perduto. Ma quel che inventarono quei quattro sciamannati ingarbugliando cavetti oggi ha invaso le nostre vite e cambiato le nostre relazioni. Cosa? Ma un’intuizione semplice e folle, da cortocircuito elettrico. Collegare il filo del telefono all’antenna della radio. In termini mediologici: connettere un medium individuale a un medium broadcast. Se non avete ancora capito, fu esattamente quello che ora facciamo ogni minuto con i nostri telefonini collegati a Internet. Solo, quarant’anni fa.
«Mica eravamo ingenui. Mao-dadaisti, situazionisti, quel che vuoi, ma Radio Alice nasce da un collettivo dal nome pallosissimo: Cooperativa di Studi e Ricerche sul Linguaggio Radiofonico. In Italia solo una trasmissione Rai usava il telefono allora, Chiamate Roma 3131, ma era tutto registrato e filtrato. Noi guardavamo alle radio americane». Minnella oggi ha 65 anni, fa il tecnico informatico, fu uno dei primi dieci italiani a possedere un Apple. Allora era un anarcoide nonviolento (otto mesi a Gaeta per renitenza alla leva) che col fratello Mauro pasticciava con l’elettronica. Negli scantinati di un’osteria alternativa incontrò il Movimento. La coscienza dei mezzi più la coscienza del fine: nacque Radio Alice, nome frutto di sfinimento dopo tremila proposte («chiamatela come vi pare! chiamatela Alice! Ok, Alice»), poche centinaia di migliaia di lire di colletta, sede nella casa in affitto di due del gruppo, un trasmettitore militare recuperato da Maurizio Torrealta, futuro giornalista Rai.
Ma quella cosa delle telefonate cambiò tutto. «Quindici giorni dopo non eravamo più padroni della radio. Nessuno lo era». Del resto, Alice odiava, nell’ordine: la competenza (parla solo chi è titolato a parlare), la redazione (parla solo chi gestisce il microfono) e il palinsesto (parla solo chi ha uno spazio autorizzato). Si iniziava al mattino senza sapere cosa sarebbe andato in onda entro sera. Unico appuntamento fisso, rigorosamente rispettato, con le favole per mandare a letto i bambini, lette alle otto di sera da Alessandra ed Elio. Per il resto, sarabanda. Microfono a disposizione di chi aveva qualcosa da dire, le due stanzette invase, ci incontravi gli Skiantos, Pazienza, Bifo, Scozzari, Claudio Lolli, Bonvi, i “frocialisti”, le femministe, il collettivo “Rasente i muri” dei compagni mollati dalle compagne diventate femministe… Stockhausen e i Gaznevada, Majakowski e cazzocompagni, Dams e demenziale, quello che chiamava per commentare la politica internazionale e quello che voleva sapere «dov’è Giovanna»…Radio di massa più che di movimento, geniale follia più che lucida controinformazione. Questa era la radio che il 12 marzo fu chiusa da un’irruzione della polizia per «istigazione a delinquere». Il giorno prima era stato ammazzato Francesco Lorusso, disarmato militante di Lotta continua. Bologna nel caos, fra barricate e autoblindo. Niente cellulari, ma le cabine telefoniche (girava una chiave che apriva l’apparecchio e permetteva di telefonare gratis recuperando il gettone) erano i terminali di una “diretta” sugli scontri, che la radio ritrasmetteva e che beffava le manovre della Polizia. Anni dopo, il capo della Mobile Ciro Lomastro ne era ancora ammirato: «Noi avevamo le ricetrasmittenti, ma il nostro era un contatto uno-uno. Loro avevano uno schema uno-tutti. Erano più avanti di noi». Lo aveva capito anche quel tenentino che sulle scale, quella notte, fu sentito ordinare ai suoi: «Non sparate! Sono in diretta!».
Insomma l’esordio anomalo, profetico dei social network, in Italia, finì al gabbio. Arresti, botte in Questura e un processo di sette anni finito con assoluzioni. «Ma noi non “dirigevamo la guerriglia”, chi avrebbe potuto? Quel giorno non facemmo nulla di diverso dai mesi precedenti, lasciare i microfoni aperti. Era la realtà attorno a noi che era cambiata». Certo, c’era stato quello che i sessantenni di oggi ricordano come “il venerdì della nostra vita”, l’uccisione di Lorusso, la rabbia violenta, la repressione. E fu l’inizio della fine, che precipitò la generazione del desiderio in quella del lutto bloccato, o del furore omicida, o dello sterminio a rate dell’eroina. La favola di Radio Alice iniziava: “C’era un’altra rivolta”, creativa e profetica: ma non arrivò a tirar la morale.