Alberto Contri *, Blog in HuffPost, 22 VI 2018
* (Docente di Comunicazione sociale presso IULM)
Allarme generazione Y e Z
Chi insegna nelle scuole superiori e nelle università, non può non accorgersi che un numero sempre più rilevante degli studenti delle generazioni Y Z, possiede oramai una struttura di pensiero limitata, un vocabolario ridotto, un linguaggio smozzicato.
In proposito aveva detto il linguista Wittgenstein: “Dato che il linguaggio è il mezzo con cui l’io si relaziona con la realtà, se è corrotto il tuo linguaggio, significa che è corrotto il tuo rapporto con la realtà“.
Come mai succede questo? I ragazzi di oggi, i cosiddetti nativi digitali, usano in maniera compulsiva i fantastici, progrediti mezzi di comunicazione a loro disposizione, e sempre più spesso contemporaneamente: per questo motivo raccolgono frammenti, rielaborando di conseguenza ciò che hanno incamerato: frammenti. Credendo di poter svolgere funzioni multitasking come un computer, incarnano plasticamente una famosa legge dell’informatica: rubbish in, rubbish out.
Il che ci avverte che siamo entrati nell’economia della costante attenzione parziale.
Per capire come ci siamo arrivati, dobbiamo andare indietro di almeno 60.000 anni, fino al momento in cui gli uomini hanno cominciato a parlare tra loro per la prima volta. Possiamo considerare quel momento come il primo grande breaktrough nella storia della comunicazione umana. Ci vorranno ben 50.000 anni per arrivare al secondo: nel 1500 a.C. nasce il linguaggio, contemporaneamente tra Egizi, Fenici, Sumeri, Cinesi.
Il balzo successivo richiede solo 3000 anni: nel 1455 Gutemberg inventa la stampa a caratteri mobili, una rivoluzione di portata gigantesca per la diffusione della cultura e della matematica.
Con un balzo ancora più piccolo, 400 anni, si arriva al 1840, anno in cui viene diffuso il primo quotidiano a grande tiratura, il London Gazette, nato già nel 1600 come semplice foglio. Da metà ottocento, in meno di 200 anni assistiamo infine ad un susseguirsi incessante di invenzioni e progressi, tutti assai rivoluzionari: telegrafo, linotype, fotografia, cinema, telegrafo senza fili, radio, tubo catodico (1900), prime trasmissioni tv (1930), digitalizzazione dei segnali, personal computer, fino ad arrivare al 1990 con internet, un altro gigantesco breaktrough, paragonabile ad un vero e proprio e nuovo Big Bang.
Se proviamo a immaginare questi eventi sull’asse del tempo, vediamo una gigantesca molla le cui spire hanno cominciato a stringersi sempre di più, fino a schiacciarci. Ma non è la sola emergenza cui fare fronte. Per esempio, i canali TV digitali in pochi anni sono diventati migliaia, mentre oggi ci sono un miliardo e mezzo di siti internet attivi raggiungibili dal nostro pc: intanto, il tempo diventa il fattore critico per eccellenza.
Viviamo un irrisolvibile paradosso: mentre aumentano le opzioni informative e di intrattenimento (gli americani l’hanno chiamata “information overload“) diminuisce il tempo per la loro fruizione. La maledizione prevista da Shakespeare diventa un mal di testa quotidiano, soprattutto per comunicatori ed editori: “Il tempo è uscito dai cardini. Oh sorte maledetta, che proprio io sia destinato a rimetterlo in sesto”. Amleto atto I scena I, ed era il 1600!
Per reagire a tutte queste criticità cosa fa l’essere umano, soprattutto il più giovane? Tenta di diventare multi-tasking come un computer, e così cattura velocemente frammenti, con il risultato di rielaborare frammenti. Ma i neurologi ricordano che passare troppo rapidamente da un compito all’altro ha dei costi cognitivi.
Ogni volta che leggiamo un sms, apriamo una mail, diamo un’occhiata a whatsapp o messenger, il nostro cervello riceve uno schizzetto di dopamina, l’ormone della soddisfazione, che viene interpretato come la ricompensa per aver svolto un compito. Alla fine della giornata saremo ricolmi di soddisfazione… per non aver combinato in realtà granché.
Anzi, nel nostro cervello ci ritroveremo un sacco di interruttori esausti, surriscaldati e usurati per le continue commutazioni cognitive. E’ proprio quello che capita alla generazione Z, che in più, avendo messo precocemente le dita su una tastiera qwerty, patisce evidenti ritardi nel linguaggio perché nei neuroni, il ricordo completo delle parole è costituito dall’ordine di scriverle e dai segni che la mano ha scritto. Peccato che i tasti del pc rimandino indietro segnali quadrati tutti uguali!
Ecco perché le scuole più illuminate di neurologia e psicopedagogia sconsigliano di far mettere le mani su un pc ai bambini prima di 7-9 anni, e insistono per fare scrivere a mano e in corsivo il più possibile. Ma anche agli adulti viene oggi consigliata, dalle più avvedute scuole di managment, la scrittura a mano per prendere appunti, capire e ricordare meglio. Un altro problema riscontrato dalla generazione Y e soprattutto dalla Z, è l’avere tutto a portata di click.
Perché grazie a questa opportunità, fin da piccoli non si studia più niente a memoria, non ci si esercita ad analizzare, ricordare e riscrivere, perché tanto si può fare in qualsiasi momento il copia-incolla di qualsiasi testo preso al bisogno da qualsiasi fonte. Ma dato che il cervello è una sorta di muscolo, lasciandolo inerte diventa sempre più flaccido.
Oggi stiamo fronteggiando una crisi antropologica e non ci facciamo caso. Per superarla non c’è progresso tecnologico o intelligenza artificiale che tenga. Per superarla dobbiamo ritornare a padroneggiare alcune fondamentali capacità analogiche, tra cui la scrittura a mano e l’esercizio della memoria.
Non ci vuole poi così tanto: basterebbe una riflessione e un impegno condivisi tra insegnanti, docenti, genitori. Ricordando ciò che aveva già scritto Dante nel canto V del Paradiso: “Non fa scienza sanza lo ritenere avere inteso”.