Mario Furlan, blog su Il Giornale, 23 IV 2020
Coronavirus: sei felice solo se sei insicuro
L’uomo, e in particolare l’uomo moderno, avverte un gran bisogno di sentirsi sicuro. Si aggrappa, con le unghie e con i denti, alle sue certezze: lo Stato che lo protegge, il lavoro che gli dà da mangiare, la famiglia che lo sostiene. Amiamo la sicurezza: tutto ciò che è prevedibile, verificabile, accertato. E odiamo l’incertezza. Perché ci destabilizza. E ci fa sentire deboli, fragili, impauriti, in balia degli eventi.
La dura verità è che la sicurezza non esiste. Ripeto: non esiste alcuna certezza nella nostra vita. L’unica certezza è che siamo nati. E che moriremo. Tutto il resto è assolutamente incerto. Quindi pretendere di ricavare sicurezze da figure esterne da noi – che siano lo Stato, la moglie o il datore di lavoro – è infondato.
La crisi derivata dal coronavirus ha, come tutte le crisi, accresciuto il nostro senso di insicurezza. E quindi la nostra paura del futuro. Questo virus che semina morte ci fa sentire ancora più piccoli e fragili. “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”: la poesia “Soldati” di Ungaretti si può adattare a questo momento storico. Vediamo la malattia, la morte, l’incertezza economica tutto intorno a noi. Ci sentiamo affogare nell’insicurezza e nella paura. E ci viene da aggrapparci a chiunque ci possa fornire qualche appiglio di certezza.
A chi si rivolge a me, motivatore e life coach, per trovare certezze ripeto che non può trovarle fuori di sé. Tantomeno al giorno d’oggi. Una volta, e mi riferisco al secolo scorso – vent’anni fa, che sembrano già un’era glaciale fa – le cose erano un po’ diverse. Forse ti ricorderai che i genitori volevano vedere i propri figli sistemati. Quindi al sicuro. E c’erano tre pilastri da costruire per raggiungere questo obiettivo: un lavoro con il posto fisso; una casa di proprietà; e un matrimonio, preludio alla famiglia. Papà e mamma volevano questo per i propri pargoli: che avessero un lavoro per la vita; una casa per la vita; e una famiglia per la vita.
Non funzionava sempre così. E oggi non funziona per niente così. Il posto fisso regge, per ora, soltanto nel pubblico impiego; per il resto è un miraggio. E, con la valanga di chiusure aziendali in arrivo, lo sarà ancora di più. Se perdi il lavoro rischi di non poter far fronte alle spese per la casa, e quindi di perderla. E sulla famiglia da Mulino Bianco è meglio stendere un velo pietoso: un matrimonio su due finisce in separazione o divorzio.
Le certezze esterne non esistono più. E non può certo essere lo Stato – tantomeno quello italiano, sgarrupato com’è – a darcele. Anzi, la propensione di politici e burocrati a non correre alcun rischio rischia di procurare più danni che benefici. Lo stiamo vedendo proprio in questi giorni. Stiamo, lentamente e faticosamente, entrando nella fase 2 dell’emergenza coronavirus. Se tutto va bene, dal 4 maggio potremo, tra mille cautele, uscire di casa. Ma troveremo un mondo completamente diverso rispetto a quello di due mesi fa. Per non correre alcun rischio, sui mezzi pubblici ci dovrà essere un sedile vuoto tra una persona e l’altra. Lo stesso su treni e aerei. Ci saranno code all’ingresso, con ingressi contingentati. E anche nei ristoranti i clienti dovranno essere dimezzati, con grandi spazi tra un tavolo e l’altro.
Nella speranza di non correre rischi di contagio, la certezza sarà che i prezzi raddoppieranno. Oppure i posti di lavoro si dimezzeranno. Perché se una compagnia aerea può caricare la metà dei passeggeri di prima è costretta a raddoppiare il prezzo del biglietto. I ristoranti non potranno sostenere le stesse spese con la metà della clientela. Senza contare, poi, le spese per la continua sanificazione del locale. Entreremo nei negozi facendo la coda, come già la facciamo al supermercato; e se vorremo provare un vestito dovrà, subito dopo, essere disinfettato. Meglio, molto meglio, comprare online. Andare dal barbiere, al bar, dall’estetista sarà uno stress. Di andare in palestra, al cinema, a teatro, allo stadio, al concerto, sia pure con nuove e complesse regole, manco a parlarne.
Diventerà un’impresa anche andare in spiaggia. Al mare, quest’estate, lo spazio tra gli ombrelloni dovrà essere lo stesso, molto ampio, che già esiste ai bagni di Briatore a Forte dei Marmi. E forse ci vorrà pure un muro in plexiglas tra una sdraio e l’altra. Con annesso distributore di mascherine, di guanti e dispenser igienizzante. Morale: i poveracci non potranno permettersi di andare al mare. Sarà una cosa solo per ricchi. Viaggiare, andare al ristorante, andare in albergo costerà di più. Inevitabilmente si amplierà il divario tra ricchi e poveri. Si accresceranno rabbia, rancore e conflitti sociali, fomentati dalla peggiore crisi economica degli ultimi 90 anni.
Altri Paesi europei, colpiti dalla pandemia dopo noi, ne stanno già uscendo. Hanno già riaperto le scuole, gli alberghi e tutto il resto. Noi no. Per timore di correre rischi (calcolati: non si tratta di essere incoscienti, è chiaro), in Italia tutto procede al rallentatore. Con mille task force, mille commissioni, mille vincoli, mille intoppi, mille complicazioni. Che, c’è da scommetterci, dureranno in qualche forma almeno fino a quando non si troverà il vaccino. Perché da noi non c’è nulla di più definitivo del provvisorio.
A dire il vero la progressiva complicazione della vita pubblica non riguarda soltanto l’Italia. E’ il mondo della politica che ci spinge verso una sempre maggiore complessità. La vita era più semplice vent’anni fa; e sono pronto a scommettere che tra altri vent’anni saremo ancora più incasinati. Con più leggi, più regolamenti, più norme, più divieti. Che restano in vigore anche quando l’emergenza che li ha partoriti è finita da un pezzo. Un esempio: dal novembre 2006 è vietato imbarcare sugli aerei liquidi sopra i 100 ml. Perché un terrorista era riuscito a fabbricare una sorta di bombetta con del liquido portato a bordo. Si era detto che questa fastidiosa limitazione, terminati gli attentati sugli aerei, sarebbe finita nel 2013. Poi nel 2016. Poi nel 2019. Ora si parla di toglierla il prossimo anno… Invece è sempre in vigore. E probabilmente lo sarà per molti anni ancora.
Possiamo supporre che lo stesso avverrà per le limitazioni antiCovid. Hanno un senso ora, ma credo che resteranno in vigore anche quando di Covid non si parlerà più. Perché politici e burocrati non vorranno correre il rischio di essere accusati di scarsa attenzione nei confronti della salute pubblica. Per pararsi il didietro, ed evitare qualunque critica, fanno la cosa più semplice: si trincerano dietro una muraglia di leggi e regolamenti. Quelli che ci complicano la vita. E, danneggiando l’economia, ci impoveriscono. Eppure, lo dicevamo, è impossibile evitare i rischi. E il rischio più grande è proprio l’illudersi di non correrli. La vita è incerta e pericolosa: non esiste al mondo presidente, premier, partito o partner che ci possano mettere al sicuro.
Esistono, dunque, le certezze? Sì. Ma non vengono dall’esterno. Bensì da dentro di noi. Per essere felice, o quantomeno sereno, devo accettare la mia fragilità. E l’insicurezza che mi circonda. Vivo in un mondo pieno di rischi, dove tutto può cambiare da un momento all’altro. E nessuno mi può salvare. Però una certezza la posso avere. E’ la certezza del mio valore. Della mia resilienza. Della mia capacità di risollevarmi dopo essere caduto. Di vincere dopo una sconfitta. Solo così, con le mie sicurezze interiori che nessun virus può scalfire, posso sconfiggere la paura. E vivere felice.