Dagospia, 22 V 2019
LIBRO BOMBA DI PINO CORRIAS
Con la mafia non si tratta – Un capitolo di “Fermate il capitano Ultimo”, il nuovo libro di Pino Corrias (ChiareLettere) in libreria dal 23 maggio.
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Ultimo ha sempre considerato la trattativa Stato-mafia un’indagine sbagliata, un modo forse involontario, ma ostinato, di ridimensionare la vittoria dello Stato attraverso una serie di congetture mai dimostrate, di distrarre l’opinione pubblica con misteri suggestivi, ma falsi, per ignorare quelli veri. Compreso quello della buona convivenza tra i molti poteri in Sicilia – l’economia, la mafia, la massoneria, le istituzioni – che talvolta hanno rotte di navigazione differenti, ma più spesso stanno in scia senza troppe interferenze.
Quello di Ultimo è uno sfogo covato per anni. Dice: «Nessuno si è sognato di indagare come mai la mafia e Riina l’abbiano fatta franca per trent’anni. Nessuno ha indagato se c’erano complicità o coperture dentro il Palazzo di giustizia, dentro le istituzioni, dentro le forze politiche».
Si chiede: «Perché nessuno ha preso in considerazione il dossier “Mafia e appalti”? Perché non c’era un’attività investigativa costante su Riina e i suoi complici? Chi ha deciso di non controllare la moglie ogni volta che partoriva alla clinica Noto, nel centro di Palermo? Come mai nessuno l’ha seguita, intercettata? È successo per reciproca convenienza, per quieto vivere, per paura? Non lo so, anche se vorrei saperlo. Ma è un fatto che tantissimi di quelli rimasti muti e coperti per trent’anni si siano scatenati contro Falcone quando è finito il maxiprocesso, e contro di noi appena abbiamo preso Riina. E allora chi copre chi?
«Mi ricordo che, quando preparavamo la missione a Palermo, tanti brillanti investigatori ci dicevano: “State perdendo il vostro tempo. A Palermo è impossibile fare i pedinamenti. La mafia ha mille occhi”. E ci guardavano con aria di sufficienza. Ma quello che fino al giorno prima della cattura era considerato impossibile – stanare dal suo covo il capo dei capi – il giorno dopo è diventato un gioco da ragazzi: ve lo hanno consegnato. Anzi, peggio: è stata la contropartita per un tradimento delle istituzioni.
«E chi ha tradito? I carabinieri, dice la sentenza. In cambio di cosa? Della benevolenza dei politici? Quali? Oppure per ottenere soldi, onore, carriera? Proviamo a calcolare i vantaggi incassati: Mori, Subranni e De Donno sotto inchiesta per una ventina di anni, processati tre volte, poi alla fine condannati. Io sotto processo, assolto e infine archiviato in un sottoscala dove mi impediscono di lavorare. I miei uomini umiliati e dispersi.
«E i mafiosi che vantaggi hanno avuto dalla trattativa? Riina e Provenzano sono morti in carcere. Bagarella è sepolto al 41 bis. L’unico che ha scampato l’ergastolo e gode di immensi privilegi è Giovanni Brusca, che ha sulle mani il sangue di cento omicidi, compresi quelli di Giuseppe Di Matteo, sciolto nell’acido, e di Falcone, ucciso dal suo tritolo. Per lui niente regime speciale e molti permessi perché si è pentito, ha aiutato le indagini e ha trattato con i magistrati. Quindi sì, Brusca la trattativa l’ha fatta. Anzi, ne ha fatte due: prima con lo Stato quando faceva le stragi, e poi con la procura quando si è lasciato il passato alle spalle e ha intrapreso la seconda trattativa, lavandosi il sangue dalle mani.
Dunque non un assassino, ma un genio del male e poi del bene. «E i magistrati? Qualche procura o qualche procuratore è finito sotto inchiesta a causa della trattativa? Non mi risulta. Il dottor Gian Carlo Caselli è andato in pensione con tutti gli onori, com’era giusto. Il dottor Pietro Grasso è salito fino ai vertici delle istituzioni, venendo nominato presidente del Senato. Il dottor Giuseppe Pignatone è andato a dirigere la Procura di Roma. Gli altri sono al loro posto, a parte il povero Ingroia che si è messo nei guai da solo, tutti bravi e brillanti investigatori.
«Era una trattativa che andava fatta, quella con Brusca? O quella che fece Pier Luigi Vigna, procuratore nazionale antimafia, con il boss Pietro Aglieri per convincerlo a pentirsi? Credo proprio di sì. Tutto quello che serve per disarticolare la mafia va tentato. Proprio come ha fatto il generale Mori quando è andato a sondare Vito Ciancimino.
Anche lui cercava una chiave, una luce investigativa, una strada per capire e per colpire. Ma mentre incontrava don Vito a Roma organizzava la mia partenza per Palermo, anche se tutti ci dicevano che era una missione impossibile, che avremmo fallito, che Palermo era un labirinto dove c’erano mille complicità che coprivano le serrature.
Eppure Mori mi ha dato tutti i mezzi necessari, tutti gli uomini, tutta la libertà di provare la strada della pura investigazione, dell’accerchiamento e dell’attacco. E lo ha fatto mentre trattava? Sì, certo. «Sondare la zona grigia per trovare una chiave d’accesso a Cosa nostra e nello stesso tempo preparare le armi per distruggerla sono due momenti della stessa strategia. «Mettere sotto inchiesta quella doppia strategia, trasformarla in un cedimento alla mafia – o addirittura in favoreggiamento – è una distorsione della realtà. Una distorsione pericolosa che fa solo l’interesse di chi con i sistemi criminali ci vuole convivere per trarne lavoro e prestigio.
«Cosa succederebbe se un giornale cominciasse a scrivere che un personaggio come il commercialista Piero Di Miceli entra ed esce dalla Procura di Palermo quando gli pare, che ha assunto la nuora del giudice Vittorio Aliquò e che ci sono almeno due pentiti di mafia, come Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci, che raccontano la vicinanza tra questo personaggio e certi magistrati? Niente la prima volta, niente la seconda, ma forse alla terza qualcuno aprirebbe un’indagine. Ci sarebbero le smentite, le polemiche. Ma intanto l’indagine diventerebbe un’inchiesta, magari affidata alla Procura di Caltanissetta. E dopo dieci anni, un processo. E dopo un processo, un altro.
Magari tutti basati su insinuazioni, sospetti e maldicenze più che su prove. «Per carità, penso che sia giusto fare i processi, mettere tutto in discussione, indagare, verificare, eccetera. Ma quando un’inchiesta diventa una persecuzione non mi sta più bene.
Quando il generale Subranni viene accusato dalla moglie di Borsellino di essere punciutu, cioè mafioso, perché lei lo ha sentito dire una sera da suo marito, come fai a difenderti? Quando l’assoluzione di Mori per la mancata cattura di Provenzano viene ignorata e le stesse carte ritornano nel processo sulla trattativa Stato-mafia, con gli stessi testimoni, gli stessi episodi, fino a ottenere una condanna che non sarebbe stata possibile in origine, non sono più sicuro che si stia cercando la verità, quanto piuttosto un capro espiatorio. Allo stesso modo, la mia assoluzione per la mancata perquisizione della villa di Riina avrebbe dovuto dissipare i sospetti una volta per tutte, ma non ha fatto altro che alimentarne di nuovi».
Continua Ultimo: «Caselli non è stato ingannato da me, che gli ho sempre detto la verità, ma da quei magistrati che hanno fatto marcia indietro sulla storia della perquisizione e lo hanno convinto a fare altrettanto. Li ha assecondati anche se sapeva benissimo che, se quel pomeriggio del 15 gennaio 1993 avesse ordinato di perquisire tutte le ville e tutti gli inquilini di via Bernini, di via della Regione Siciliana, di piazzale Kennedy, noi l’avremmo fatto perché lui era il responsabile dell’indagine, e non avremmo mai disatteso un suo ordine
«Ma la verità è che stiamo tutti parlando di nulla e sul nulla. Dieci minuti dopo l’arresto, i mafiosi sapevano che Riina era stato catturato. Davanti alla sua auto c’era una staffetta in motorino che, mentre noi ci infilavamo nel traffico di Palermo, stava già avvertendo tutti i boss che aspettavano Riina per una riunione.
È una cosa che è stata raccontata anni dopo dai pentiti, ma che era immaginabile, perché a Palermo la mafia ha davvero mille occhi. «Se ci fosse stato veramente qualcosa di importante nella villa – qualche carta, qualche fantomatico elenco di complici – sarebbe sparito in quei minuti: Ninetta Bagarella lo avrebbe nascosto, distrutto o magari usato per qualche ricatto. Mentre noi saremmo riusciti a organizzare la perquisizione molte ore dopo e saremmo dovuti entrare in forze dentro al comprensorio perché ancora non sapevamo qual era la villa e tutti gli inquilini di via Bernini erano sospettabili. Sarebbe stato un rastrellamento. Quindi di cosa stiamo parlando?»