F.Daveri*, G.Verona**, Corriere Economia, 12 I 2020
PERCHÉ HA SENSO INVESTIRE IN ITALIA (E VIVERCI)
Quando l’economia italiana arriva sotto i riflettori lo fa spesso per le ragioni sbagliate. Giusto un anno fa, il New York Times titolava: «L’Italia cade di nuovo in recessione, alimentando paure globali».
Il giornale più famoso del mondo registrava che il Pil italiano era di nuovo sceso e per due trimestri consecutivi, alimentando il timore della terza recessione in undici anni. E in più ricordava anche che eventuali guai italiani potevano essere cattive notizie per il mondo intero. Non esattamente uno spot pubblicitario per il nostro Paese.
Poi, nel corso dell’anno, si è scoperto che i timori di recessione erano sopravvalutati: negli ultimi due anni l’economia italiana è semplicemente rimasta più o meno ferma dov’era. Ma tant’è: dopo qualche mese, l’Economist – nel segnalare l’arrivo di «uno scorcio di buone notizie sul fronte economico» – ha comunque scelto di titolare: «L’Italia è fuori dalla recessione: ma per quanto tempo?».
Le conseguenze
L’incapacità dell’economia italiana di crescere a tassi decenti non è una novità. Dopo l’adozione dell’euro e l’ingresso della Cina nel Wto (the World trade organization) la crescita dell’Italia è scesa a un magro 0,1 per cento all’anno, che si confronta con un 1,4 per cento per il resto dell’area dell’euro nello stesso periodo di tempo. A sua volta, la scomparsa della crescita ha altre spiacevoli conseguenze. Un paese che non cresce è più facilmente tentato dalla scorciatoia di fare più debito pubblico. E infatti, nonostante i buoni propositi sempre dichiarati, i tanti governi italiani (ce ne sono stati 63 dal 1948, quasi uno all’anno) non sono riusciti a scalfire l’enorme debito pubblico del paese, ora al 135% del Pil. Una montagna di soldi da ripagare con inevitabilmente alte tasse e meno servizi pubblici erogati dallo Stato.
La fiacca crescita è anche associata a una minore capacità di rimborsare i prestiti bancari, a tanti fallimenti aziendali, al ristagno del mercato della casa e – lo ricordava Eurostat – a un alto numero di famiglie che non riescono a riscaldare la loro casa in modo adeguato.
In più, il paese continua a essere diviso tra le regioni meridionali desertificate economicamente, in declino demografico e con i giovani in fuga dalla sottoccupazione, quelle centrali una volta prospere e oggi impegnate in una difficile transizione verso una rinnovata vitalità e le regioni settentrionali produttive che creano posti di lavoro e crescita, ma non abbastanza per beneficiare tutti nel resto del Paese.
La resilienza
Eppure, se osservata con attenzione, l’attenzione spesso usata dagli investitori stranieri, l’Italia non è condannata al declino ed è in realtà molto meglio di quanto si possa pensare.
È vero, i governi cambiano spesso. Ma un sistema di pesi e contrappesi conferisce al presidente della Repubblica il potere di garantire la stabilità richiesta a livello nazionale e internazionale anche quando il primo ministro è sostenuto da governi deboli. E così l’instabilità politica non si traduce automaticamente in instabilità delle politiche economiche effettivamente attuate. Tanto che anche in periodi in cui lo spread sul debito era alle stelle l’Italia ha continuato a onorare i suoi (gravosi) impegni di rimborso del debito. Anche la battagliera coalizione giallo-verde della Lega e del Movimento Cinquestelle ha finito per approvare una legge di Bilancio 2019 con un deficit solo di poco superiore al 2 per cento – un numero in linea con le aspettative della Commissione europea e dei mercati. E il governo europeista subentrato in settembre ha proseguito sulla stessa linea di condotta. Sembra instabilità, ma potrebbe essere letta come «resilienza».
Ed è vero – ha confermato l’Istat – l’industria ha smesso di crescere. Più da noi che altrove. Nei momenti più drammatici della crisi degli ultimi anni i consumatori hanno smesso di acquistare i prodotti di lusso italiani di fascia alta, mentre continuavano ad acquistare i più economici prodotti spagnoli come le scarpe di Camper o gli abiti di Zara.
Rimane però che, mentre la deindustrializzazione è un fenomeno comune a molti paesi avanzati, tanti segmenti del made in Italy – dal mobile alla meccanica, dall’alimentare al turismo – hanno sempre un grande potenziale che oggi vale già 650 miliardi di dollari di esportazioni l’anno. Non per caso l’Italia è l’ottavo esportatore al mondo dopo la Cina, gli Stati Uniti, la Germania, il Giappone, la Gran Bretagna, la Francia e la Corea del Sud, con un surplus commerciale vicino al tre per cento del Pil. In un mondo sempre più piatto, i produttori italiani dotati di caratteristiche speciali saranno meno spinti a cercare all’estero costi di manodopera più economici per resistere alla concorrenza dei paesi emergenti.
La selezione
Infine, le aziende italiane sono mediamente piccole e il «piccolo» non è più bello o lo è di meno di quanto fosse prima della rivoluzione di Internet. Tuttavia, i dati sulla ripresa italiana 2014-18 confermano che le imprese italiane di tutte le dimensioni (e non solo le medio-grandi) sono riuscite a crescere. Le piccole imprese spesso a conduzione familiare che si adattano ai cambiamenti sostituendo i vecchi metodi manageriali con quelli più moderni hanno dimostrato di avere più successo di altri, con risultati migliori in termini di flussi di cassa e di rendimenti sul capitale proprio. Anche al Sud: mentre falliva la mal gestita Popolare di Bari, il rapporto di Intesa Sanpaolo sui distretti italiani ricordava il duraturo successo dell’industria meccatronica di Bari.
Per concludere, la crescita dell’economia italiana è e probabilmente rimarrà contenuta anche negli anni a venire. Ma in giro per l’Italia, non mancano imprese di successo: di tutte le taglie e in molti settori. E, a ben guardare, la finanza pubblica italiana non è poi tanto influenzata dall’instabilità politica. Chi ci guarda da fuori ed è disposto a spendere un po’ di tempo e denaro per selezionare con cura ha un’elevata probabilità di trovare buone opportunità di investimento (e di vita!) in Italia. Tutto considerato, nel gergo degli investitori, si potrebbe dire che l’Italia è un Buy, non un Sell.
*Direttore del programma Mba Sda Bocconi
**Rettore Università Bocconi