Roberto D’Agostino, Vanity Fair, 2 III 2020
PER DISGRAZIA RICEVUTA
A giudicare dal turbine mediatico, il Coronavirus deve avere sviluppato, per motivi di competizione con il cancro, l’infarto, l’ictus, un senso delle pubbliche relazioni abnorme, capillare, da multinazionale del virus. Non c’è giorno, giornale e telegiornale che non lanci allarmi ed emergenze. Se ne vaneggia con apprensione, spavento, scandalo, moralismo, agitando cornetti rossi e mascherine bianche; enfatizzando titoli, inventando slogan, profetizzando centinaia di milioni di appestati.
Si intervistano scienziati sinistri e medici con l’occhio a forma di bara, vescovi folli e politici che ragionano col didietro; gente che prova al pensiero di una epidemia quello che noi proviamo per un viaggio a Tahiti. Si accumulano cifre terrorizzanti, serial-tivù apocalittici e immaginari, eventi tragici, storie esemplari, pettegolezzi imbarazzanti, spot macabri, superstizioni, scemenze, volgarità, smarrimenti, paranoie.
Il Coronavirus ha fatto evitare addirittura la crisi del governo Conte e messo mezza Italia in quarantena, correndo il rischio di distruggere un paese già in difficoltà economiche. E fioccano i dubbi più angosciosi: “E’ vero che si può prenderlo anche in tram, come il digestivo Antonetto? Ho letto che il Coronavirus si manifesta con la tosse? Ho leccato un francobollo: devo fare il test del tampone?”.
Che un virus abbia un debole per il presenzialismo di massa negli ospedali, un evidente entusiasmo per la conquista di schiere sempre più folte di “ammalandi”, e un certo acre gusto dell’orrore nel battere la concorrenza di disgrazie enormemente più fatali come la fame nel mondo, la mortalità infantile, l’alcolismo e il cancro, è non solo comprensibile, ma professionalmente corretto. Tuttavia, chi non è medico, prete o giornalista, ma un semplice lettore “laico”, prova un pesante senso di depressione. Perché, scriveva acutamente Susan Sontag, “La nostra è un’epoca in cui si persegue la salute, e che tuttavia crede solo nella realtà della malattia”.
E’ vero, denunciare il problema è importante, lanciare l’allarme, aiuta a riflettere sul mondo globalizzato, dove i germi di uno colpo di tosse in Cina te li ritrovi a due passi da Milano. E’ vero, però, che dall’altro lato si crea un micidiale circolo vizioso tra emozione e sdegno come capita sempre quando le informazioni sono sovrabbondanti, eccesive e contraddittorie, a una fase di interesse, poi di irrazionale paura, seguirà certamente l’indifferenza, che, quella sì, potrebbe essere pericolosa come o più della insensata paura.
Ma è giusto – considerato il modesto numero dei morti – continuare a dipingere il virus come la “peste del Duemila”? E’ giusto creare un macabro circolo vizioso tra l’emozione e la paura del pubblico e la volontà della stampa e della televisione di assecondarle in omaggio alla tiratura e all’audience?
Il numero dei malati e dei morti di Coronavirus è senza dubbio inferiore a quello dei morti di alcolismo o di incidenti d’auto. Ogni anno in Italia muoiono 11 mila persone di polmonite. Cioè 30 al giorno. Ma sono morti “silenziose”, a luci spente, che non destano l’attenzione dei media. La causa? I classici virus influenzali che direttamente o indirettamente, cioè per complicanze respiratorie o cardiovascolari, non sono poi così tanto meno insidiosi del Covid-19.
E’ evidente che il Coronavirus si trovi in un periodo di ciclo vitale, perché fa parte di quei virus che hanno dei periodi di esuberanza per entrare poi in uno stato di letargo. E’ come la lebbra, la peste bubbonica, il cosiddetto “cancro dei cipressi” – una specie di ondata infettiva che, ogni 8O anni, elimina gli alberi più deboli. Sono malattie cicliche; quindi può essere che del Coronavirus ci fosse stata un’altra epidemia tre secoli fa, che veniva chiamata intorcimento delle budella oppure peste viperina.
Nel corso della storia ci sono sempre state delle terribili pestilenze, alcune delle quali hanno avuto delle conseguenze esiziali per l’apparato politico. Si dice che l’epidemia che colpì il regno degli Antonini, nel secondo secolo a Roma, fosse l’arrivo del morbillo; invece, la natura della famosa peste nera, che si abbatté su Bisanzio e sul Medio Oriente nel sesto secolo, è ancora avvolta dal mistero. Insomma, se ne parla poco con esattezza scientifica, ma è vissuto come l’attesa del castigo dopo il delitto, una punizione morale come la peste che colpisce Don Rodrigo nei “Promessi Sposi” o il vaiolo di Madame Merteuil in “Les liasons dangereuses”