Nicola Rizzoli, La Repubblica, 20 VII 2014.
LE ANALOGIE TRA UN TENNISTA E UN ARBITRO.
“Controlla ciò che puoi. Controlla ciò che puoi. Controlla ciò che puoi…”. Me lo ripeto come un mantra, sotto la doccia della mia stanza di albergo. Mancano circa cinque ore al fischio di inizio della finale dei Mondiali. Questo è l’ultimo momento di solitudine. È così che entro in clima partita: pronunciando la stessa frase di André Agassi.
Ci sono molte analogie tra un tennista e un arbitro, l’ho scoperto leggendo il suo libro. In campo sei solo, dipende tutto da te, parli con te stesso. Certo ci sono gli assistenti, quelli che tutti chiamano ancora guardalinee, siamo una squadra, ma ognuno di noi è comunque solo nell’istante in cui deve tirar su la bandierina, fischiare, decidere.
Nel libro, Open, Agassi dice che quando ha troppe cose da dover controllare, pensa solo a «controllare ciò che può». Io faccio uguale, mi ripeto sempre «controlla ciò che puoi», e se ti sei preparato bene, seriamente, quello che potrai controllare sarà tantissimo… Si spera.
Non dimenticherò mai la voce del signor Jorge Romo che pronuncia il mio cognome. Venerdì mattina, 11 luglio, nell’aula dell’hotel annuncia: «Ora daremo la designazione dell’arbitro che farà la finale del Campionato del Mondo».
Onesto? Quando sono partito dall’Italia, puntavo alla semifinale. L’emozione è a mille, pur sapendo che le nostre chance sono minime. O almeno è quello che ci siamo costantemente ripetuti, io e i miei “soci”, in questi giorni di attesa, un po’ per scaramanzia, un po’ per consapevolezza e un po’ per prepararci alla possibile, anzi probabile, “delusione”…
«Match numero 64: Alemania-Argentina, stadio Maracaná. Referee, R…». Quella R… così eterna sposta il mio sguardo sul collega uzbeco Irmatov, poiché il suo nome è Ravshan. «R… i ss oli »! Irmatov non si è mosso, noto. Sento un dolore alla gamba sinistra enorme. Stefani mi ha appena rifilato un pugno sotto al tavolo. «Ri ssoli??? Rizzoli??? Io????».
Guardo Andrea che quasi salta in piedi poi si accascia sulla sedia, mi giro verso Renato Faverani, l’altro assistente, guardo l’aula che ci osserva e applaude. «…siamo NOI?!!!». Sono tutti in piedi ad applaudire. Faremo la finale del campionato del mondo in Brasile, al Maracanà. Mi metto le mani sul volto. «No, no, no… non tremate!»: parlo alle mie gambe che stanno per traballare, fatico a controllarle. Proença e Irmatov, gli altri favoriti a questa designazione, mi abbracciano sussurrando parole di stima che mi lusingano. Così però mi commuovo, e non voglio: voglio solo urlare di gioia.
Mi catapultano frastornato a registrare l’intervista che verrà trasmessa un’ora dopo alla conferenza stampa ufficiale. Sono molto emozionato. Non è facile restare “normali” e dire qualcosa di sensato e lucido per di più in inglese con tutto il frastuono che ho in testa.
Quando la notizia arriva in Italia, alle 19.50 circa, il telefono esplode.
Vibra in continuazione, un sms dietro l’altro, non riesco a stargli dietro, non posso rispondere a tutti. Smetterà solo quando in Italia saranno le due di notte. Circa quattrocento messaggi. Decido di parlare con Howard Webb, l’arbitro inglese che ha diretto la finale precedente, e il primo consiglio che mi dà è proprio «ora dimentica il telefono, meglio spegnerlo».
Sembrerà singolare, ma io non ho mai problemi a dormire. Mi sdraio e dormo, sono fatto così, e così ho fatto anche quella notte e la successiva, quella del giorno prima della partita. È una vigilia lunghissima da reggere, ma di natura faccio fatica a essere agitato. La felicità è così tanta che compensa la tensione creando uno strano equilibrio che mi consente di arrivare sereno all’appuntamento. Sereno, vabbè, non esageriamo.
Il sabato trascorre tra palestra, allenamento, preparazione tattica.
Mi confronto con tutte le persone che possono aiutarmi a preparare al meglio la partita, ovviamente con Massimo Busacca, il capo degli arbitri mondiali, e gli istruttori presenti, ma anche con Sergio Gonella, l’italiano che diresse nel ’78 la finale di Buenos Aires, che mi chiama per felicitarsi. Poi Pierluigi Collina che mi dà “due dritte”. Lui ha arbitrato la finale del 2002 a Yokohama. Su venti arbitri nella storia del calcio che hanno fatto una finale mondiale, tre sono italiani e due di questi bolognesi. Vorrà pur dire qualcosa…
Prima di rimettermi a letto, compio lo stesso rito che avevo fatto a Londra l’anno scorso, per la finale di Champions League a Wembley. Mi cucio lo stemma ufficiale sulla maglietta con ago e filo, mi piace farlo come mi ha insegnato mia nonna. La mattina della partita alle undici abbiamo l’ultimo briefing per definire la preparazione tecnica della partita, delle caratteristiche dei giocatori alle tattiche delle due squadre. In circostanze particolari come questa, ai miei collaboratori dico una cosa: «È una partita importantissima, ma si gioca sempre in undici contro undici ».
È banale, lo so, ma è la verità. Stavolta chiudo il discorso con un’altra frase, la stessa che dissi anche a Wembley. Una citazione di Sun Tzu da L’arte della guerra: «Non contare sul mancato arrivo del nemico, ma confida sulle tue qualità per sconfiggerlo». Il nemico non sono i giocatori ovviamente, ma il caso, l’imprevisto, l’episodio che ti deve trovare pronto ad affrontarlo in ogni momento. Specie quello in cui pensi che stia andando tutto bene e non ci siano più rischi all’orizzonte.
Dopo il briefing, un arbitro sudamericano, che è un pastore protestante, propone un momento di raccoglimento e preghiera collettiva. Accettiamo volentieri. È bellissimo ed emozionante, non l’avevo mai fatto così. Poi, la doccia… «controlla ciò che puoi», un pranzo leggero, la borsa da preparare con cura mettendo dentro sempre le stesse cose da quando faccio l’arbitro.
Tre ore prima della gara partiamo dal Windsor verso lo stadio. Due auto scortate dalla polizia a velocità lenta ma costante. Fuori dal finestrino scorrono le favelas. Andrea legge Agassi e ne parliamo. Il profilo dello stadio da fuori non è impressionante. Ma quando ci sei dentro l’emozione è incredibile. Il Maracanà. Basta solo il nome.
Abbiamo uno spogliatoio enorme, saranno cento metri quadri, le vasche idromassaggio che sembrano piscine. Lo schermo della tv trasmette la cerimonia di chiusura, ce la guardiamo. Poi, come sempre, a settanta minuti dall’inizio metto su la mia musica collegando l’altoparlante portatile all’iPhone.
Sempre la stessa playlist che impongo alla terna. Parte lenta, con One degli U2 cantata da Mary J. Blige e arriva forte con Titanium di David Guetta per darci la carica passando da Viva la Vida dei ColdPlay: «I used to roll the dice… fill the fear in my enemy’s eyes…».
Quell’imprevisto di cui parlavo prima. Chiacchieriamo, facciamo battute per sdrammatizzare, combattiamo il silenzio. Durante il riscaldamento sul campo i primi contatti con le squadre, un saluto con Podolski, un cinque con Andujar. Memorizziamo, ci orientiamo, prendiamo le misure al campo, mettiamo a punto il colpo d’occhio. Poi rientriamo per indossare le divise. Come sempre, cinque minuti prima di entrare, tiro fuori dalla borsa il mio barattolino di Vicks VapoRub. Mi siedo e me lo porto al naso, respiro profondamente. Quel profumo balsamico mi calma, mi rilassa da morire. Mi ricorda quand’ero piccolo…
Nel tunnel incrociamo i giocatori, controllo l’equipaggiamento, scambio due battute con Messi e Lahm, i capitani. Col tedesco scherzo sull’età, pensa di essere mio coetaneo. Magari: «Ne ho dieci di più». Non faccio discorsi seri, i calciatori in di una finale hanno così tante cose per la testa che sarebbe inutile aggiungere indicazioni o pressioni ulteriori.
Si comincia. Be’, sarà poco credibile ma in nessun momento della partita pensi che sia una finale, troppa è la concentrazione. Stefani è bravo a beccare Higuain in fuorigioco e annulliamo il gol. Lavezzi e Messi gli vanno incontro, sento le proteste nell’auricolare. Il maxischermo ripropone il replay e Lavezzi si placa: «Hai ragione tu, ti chiedo scusa ».
Nell’intervallo la tv dello spogliatoio è spenta. Ci scambiamo informazioni sui movimenti delle difese, sui duelli da tenere sott’occhio, sui giocatori più nervosi. Rientriamo in campo, la tensione e le occasioni da gol aumentano nei supplementari, ma la partita rimane giocata ed entusiasmante. Com’è andata, l’hanno visto tutti.
Alla fine del secondo tempo supplementare svuoto i polmoni dentro il fischietto, mi impossesso del pallone e non lo mollo più, mi abbraccio coi miei ragazzi. Ora possiamo guardarci intorno, goderci lo spettacolo. È una situazione strana, devi congratularti coi vincitori ma avere rispetto per il dramma degli sconfitti. Mi faccio portare il tricolore che avevo affidato al quarto uomo. Salgo in tribuna per la premiazione con pallone e tricolore tra le mani, anche i tifosi argentini ci chiamano, ma per complimentarsi.
Scendiamo le scalinate e continuo a godermi lo spettacolo… abbiamo davvero arbitrato la Finale dei Mondiali di Calcio. Negli spogliatoi riprendo il telefonino. messaggi a raffica. Al mattino dopo ne conterò oltre mille. Comincio a rendermi conto di cosa significhi dirigere una finale mondiale, adesso posso rilassami. Il presidente degli arbitri italiani Nicchi, venuto a Rio, dopo la gara mi fa capire quanto sia importante avere fatto una buona figura per tutti noi e questo mi riempie di orgoglio.
Sul volo di ritorno posso anche non dormire: un’ora in tutto, troppa ancora l’adrenalina in corpo. Quando sorvoliamo il centro di Bologna, prima dell’atterraggio, guardo il santuario di San Luca, le torri, i tetti rossi, casa… Sono passati quarantotto giorni, penso. Ora sì che è giusto