F. Gentilini, La Stampa (estr. Dagospia), 31 XII 2018.
IN FUGA VERSO KATMANDU. QUEL CHE RESTA DEL SOGNO HIPPIE
Dalle prime avanguardie beatnik al 1979, giovani occidentali all’inseguimento del nirvana.
L’ apripista di un certo modo di andare a Oriente fu la scrittrice Annemarie Schwarzenbach, che alla vigilia della Seconda guerra mondiale, assieme a Ella Maillart, salì su una Ford sgangherata e dalla Svizzera raggiunse l’ Afghanistan. Se alcuni pensano a lei come a una hippie ante litteram , lo si deve al taccuino di viaggio (La via per Kabul): solo domande, nessuna certezza, ricerca dell’ assoluto e tanta voglia di perdersi cercando l’ altro.
La fuga dall’ Occidente era a quel tempo un gesto individuale, e tale sarebbe rimasta fino agli anni Cinquanta. Furono i beatnik a inaugurare la stagione dell’ India in ordine sparso, dopo aver letto Sulla strada di Jack Kerouac e il poema l’ Urlo di Allen Ginsberg. Ma solo più avanti, sullo slancio della Summer of Love del 1967 e dei primi raduni hippie, il viaggio verso Oriente cambia forma e diventa fenomeno epocale.
(…) Il tragitto tra Istanbul e Katmandu diventò l’«Hippie Trail», e nel decennio successivo ci si sarebbe insabbiata un’ intera generazione. Zarathustra come filo rosso È il 1968 l’ anno d’ oro del «Mystic East». A febbraio i Beatles vanno a Rishikesh, nell’ India settentrionale, per un corso di meditazione trascendentale con lo yogi Maharishi Mahesh; in aprile arriva nelle sale 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, un vero e proprio inno per tutti gli psichedelici in fuga; e in settembre esce Magic Bus degli Who, destinata a diventare l’ hit della nuova Via della Seta, insieme a Gates of Heaven di Bob Dylan e Light my Fire dei Doors.
Zarathustra è il filo rosso che lega tutto: perché i Beatles, a Rishikesh, non fanno che ripeterne il mantra; Stanley Kubrick lo esalta con la colonna sonora dal poema sinfonico più famoso di Strauss; e Pete Townshend lo piazza addirittura al capolinea orientale del suo viaggio in corriera («Every day you’ ll see the dust… as I drive to Zarathustra in my Magic Bus»).
Ovviamente, per la generazione che aspirava al Nirvana, lo sballo come mezzo di conoscenza faceva premio sul resto (difatti in troppi lo confusero con il fine). Siddharta era una lettura obbligata. Hesse lo aveva pubblicato molti anni prima, nel 1922, eppure non vi era testo più attuale di quello per chi «sentiva cantare l’ usignolo nel proprio petto» e decideva di andare incontro al sole.
(…) Il richiamo del Mystic East non è mai morto, e continua a rappresentare la meta ideale per i fuggitivi di tutto il mondo. Per questo sulle strade che conducono al «cuore malato dell’ Asia» capita ancora d’ incontrarne qualcuno disposto a ogni genere di sacrificio pur di provare a resuscitare quel sogno.
Rory Maclean è uno di loro. Qualche anno fa ha ripercorso le 6000 miglia dell’ Hippie Trail scrivendo un libro che riesce ad andare oltre il rimpianto, il rimorso e la nostalgia. Magic Bus è un esempio di espiazione, di come fare i conti con la propria esistenza. Soprattutto è un inno all’ Asia che non invecchia, a un continente che ogni anno cambia pelle come i serpenti.
L’ Oriente, scriveva Hermann Hesse, è «la gioventù dell’ anima», il «luogo dell’ unione di tutti i tempi». Forse lo resterà per sempre, anzi c’ è da sperare proprio che lo resti. In fondo è rassicurante sapere che esiste un angolo di mondo dove poter sparire per poi rinascere ancora. Un’ ultima impennata, un urlo d’ amore, una via di fuga. Per quando l’ usignolo tornerà a cantare nei nostri petti.