Andrea Cionci, blog su Libero Quotidiano, 18 VII 2022
Governi per “terminare” l’Italia. Ci sono o ci fanno? Il legittimo sospetto. Intervista all’economista Savini
Parafrasando una nota commedia teatrale, potremmo titolare: “Niente elezioni, siamo italiani”. Questa anomalia tutta nostrana ormai davvero fa sì che cittadini stiano sviluppando sempre più la sensazione che ai piani alti si stia seguendo un’agenda dettata non dall’interesse del Paese, ma da altri agenti non facilmente individuabili. Molte normative, spesso recepite da fonti esterne, sembrano andare in direzione opposta al desiderio del popoli e alle sue aspettative. La classe dirigente sembra essere intenzionata a perseguire solo il proprio interesse, al costo di distruggere il proprio Paese, fino all’annientamento del suo stesso popolo. Ne abbiamo parlato con l’economista e saggista Armando Savini.
D. Dottore, possiamo dunque pensare che si tratti di incapacità nell’affrontare le sfide della complessità oppure che ci sia una volontà preordinata?
R. Viviamo in un mondo sempre più complesso, che contiene altre complessità e dove la variazione infinitesimale della variabile più irrilevante può ingenerare una catastrofe a livello planetario. Da due anni a questa parte, abbiamo preso coscienza di quanto siano fragili le economie e le società nella post-modernità. È sufficiente una crisi reale o percepita – come direbbe Friedman – a scatenare il crollo di una civiltà, fiaccando lo stato di diritto dal didentro e rammollendo la capacità intellettuale e morale della quasi totalità di un popolo. Ed è qui che «il politicamente impossibile» diventa «politicamente inevitabile». È la prepotenza dello stato di crisi. Da due anni a questa parte, le nostre vite sono state vissute appese a un dispositivo multistrato filtrante prodotto da una manciata di multinazionali. Tutto il mondo dipendeva da un cartello. Il mercato globale interconnesso – espressione massima dei principi del libero scambio e della massimizzazione del profitto – ha mostrato chiaramente le proprie contraddizione, che, come termiti, ne stanno intaccando le basi. Alla fine il regno cade per un chiodo, fabbricato e malmesso all’interno dello stesso regno.
D. Quali sono quelle politiche che potrebbero aver pregiudicato maggiormente il benessere del Paese?
R. In primo luogo, mi viene in mente il ricorso ossessivo-compulsivo alla delocalizzazione, caratterizzata dall’esportazione massiva di interi apparati produttivi, soprattutto in Cina, e che ha comportato una perdita, non solo di occupazione e ricchezza nei nostri Paesi, ma anche di know-how non facilmente recuperabile. C’era chi diceva che avremmo lavorato di meno e guadagnato di più! Ma il depotenziamento politico, economico e sociale del Bel Paese è stato perpetrato attraverso diverse fessure del sistema. Un ruolo chiave è stato il processo di svendita degli asset strategici pubblici da parte di una classe dirigente allo sbaraglio o, forse, diligentemente addestrata in esclusivi milieu finanziari. «Più mercato e meno Stato» si è gridato in tutti questi anni, perché il privato ottimizza le risorse mentre lo Stato le spreca! E così, alcuni gioielli di casa, come, ad esempio, ENI, IRI, ENEL, CREDITO ITALIANO, etc. sono stati ceduti nella “stagione dei saldi” alle solite banche d’affari, che poi sono le stesse che hanno piazzato i liquidatori alle più alte cariche dello Stato. Braudel diceva che “il capitalismo trionfa quando si identifica con lo stato, quando è lo stato”. Ma è proprio vero che i privati gestiscono al meglio le risorse nazionali? Chi persegue un profitto al di sopra di tutto e di tutti, come può garantire un’allocazione ottimale delle risorse nazionali e, soprattutto, una loro equa redistribuzione? Con un conflitto d’interessi così grande, come si potrà vedere l’elefante nella stanza?
D. I principi cardine del libero mercato, quindi, non funzionano?
R. Lo diceva già J. M. Keynes nel 1933, nel suo articolo, poco conosciuto, National Self-Sufficiency: «Quando ancora c’erano tra i vari paesi delle enormi differenze nel grado di industrializzazione e nelle possibilità di addestramento tecnico, i vantaggi di un alto grado di specializzazione nazionale erano molto considerevoli. Ma io non sono convinto che i vantaggi economici della divisione internazionale del lavoro siano oggi in alcun modo paragonabili con quelli di un tempo […] L’autarchia economica nazionale, in breve, sebbene costi qualcosa, sta forse diventando un lusso che ci possiamo permettere se lo vogliamo». Autarchia, sovranità monetaria, identità nazionale, tutti concetti che oggi vengono snobbati o, peggio, censurati in nome di una assoluta “libertà da”, cioè, di un processo crescente di “liberazione” dell’individuo da ciò tutto che lo circonda, fino a fare il deserto intorno a sé e dentro di sé, fino all’alienazione del sé dalla sua stessa vita e dal suo stesso corpo.
C’è un’altra fessura, poi, da cui è penetrata la falsa idea che la povertà generi ricchezza. Si tratta del famoso modello economico dell’austerity, con cui si è fatto il lavaggio del cervello a intere generazioni di studenti universitari, molti dei quali, oggi, insegnano le stesse aberrazioni, perpetuando l’ignominia economica per poi metterla in pratica. Sono gli araldi dell’austerità espansiva, quelli per cui “l’austerità fa crescere” e “il rigore è la soluzione”, come a dire che con la carestia si sfamano i popoli e con la rigidità mentale si generano i talenti! La parola chiave è: pareggio di bilancio. Lo Stato deve risparmiare, dicono.
D. E questo cosa vuol dire in termini pratici?
R. Ciò significa che la spesa pubblica deve ridursi e/o che il gettito fiscale deve aumentare. Ma se lo Stato risparmia, vuol dire che sta rastrellando moneta da famiglie e imprese, riducendo la ricchezza di una nazione. Il disavanzo pubblico genera un surplus nel settore non governativo, mentre un avanzo pubblico (il risparmio dello Stato) genera un disavanzo in famiglie e imprese. Non è un caso che tutte quelle volte che i governi perseguano il pareggio di bilancio, segua una crisi economica.
D. Lo Stato, quindi, non deve risparmiare?
R. Lo Stato è indipendente e sovrano per definizione e, come insegnavano alcuni economisti non allineati al pensiero dominante, lo Stato prima spende e poi tassa. Perché? Perché lo Stato è quello che in gergo si chiama currency issuer, cioè, ha il potere di emettere moneta, mentre famiglie e imprese sono currency user, cioè, usufruiscono della moneta. Ora, chi crea moneta, perché mai avrebbe bisogno di chiederla ad altri per spendere? Per capire questo, dobbiamo abbandonare quell’idea falsa e bugiarda che vede nello Stato la figura del buon pater familias o del buon manager aziendale intenti a far quadrare il bilancio. Questi usano la moneta mentre lo Stato crea moneta. Per cui, i primi, date le entrate, decidono quanto spendere; il Governo, invece, data la spesa orientata alla piena occupazione, decide quanto tassare. Lo Stato, prima, deve immettere moneta nel sistema, acquistando beni e servizi dal settore non governativo, e solo dopo può riprendere parte di quella moneta che ha emesso. Uno Stato costretto a rastrellare moneta per poterla spendere, non è uno Stato sovrano ma una colonia. Come ho spiegato nel mio libro Sovranità, debito e moneta. Dal dominio delle banche centrali al Quantum Financial System (QUI), la moneta è la passività di uno Stato sovrano. Nel 1992, pochi mesi dopo la firma del Trattato di Maastricht, l’economista inglese Wynne Godley scriveva che se un paese cede o perde il potere di emettere la propria moneta, acquisisce lo status di amministrazione pubblica o di colonia. Uno Stato, quindi, o è sovrano o è colonia. Tertium non datur.
D. Ma allora, a che serve pagare le imposte?
R. Secondo i principi della finanza funzionale di Abba Lerner, le imposte servono a contrastare l’inflazione, rastrellando moneta e, quindi, riducendo i consumi.
D. Ma non c’è la Banca centrale per questo?
R. Sì, ma dipende dal Governo. La banca centrale, quando alza i tassi di interesse, non fa altro che vendere i titoli del debito pubblico emessi dal Governo, il quale dovrebbe orientare la propria politica economica alla piena occupazione, stimolando l’economia attraverso la spesa pubblica. In questi ultimi anni, però, anziché fare una politica fiscale espansiva (spendere di più acquistando beni e servizi dal settore non governativo, cioè, famiglie e imprese), i Governi, nominati e non votati, hanno preso la direzione opposta: distruggere la domanda interna attraverso politiche deflazionistiche.
D. E questo cosa significa?
R. Significa: 1) ridurre il reddito disponibile con una crescente pressione fiscale, e quindi i consumi; 2) distruggere la capacità produttiva delle aziende nostrane, deprimendo i guadagni e ostacolando la crescita degli investimenti (mentre si agevolano fiscalmente le multinazionali); 3) aumentare la disoccupazione. La domanda che dovrebbe sorgere spontanea è: «Perché predisporre delle politiche deflazionistiche, se non c’è inflazione?». Qualche furbetto potrebbe obiettare: «Non c’è inflazione, perché abbiamo fatto politiche deflazionistiche».
D. Le politiche deflazionistiche, quindi, non servivano?
R. Se ci fosse stata davvero l’inflazione, perché da più di dieci anni a questa parte la BCE avrebbe inondato i mercati di moneta a tasso zero? Il tormentone allestito ad arte del “Whatever it takes” ancora risuona in qualche angolo del cosmo! Quando c’è inflazione bisogna restringere il credito non inondare il mercato di liquidità. E, invece, c’è stato il diluvio. Da una parte, la Banca centrale europea ha creato moneta dal nulla a favore del sistema bancario (digitando semplicemente dei numeri sulla tastiera di un computer centrale). Dall’altra, i governi – asserviti alle medesime banche d’affari o pilotati da ex banchieri nominati – con una fiscalità aggressiva rastrellano moneta vera dalle famiglie e dalle imprese. Moneta vera, in quanto espressione monetaria di quella produzione non consumata di beni e servizi, diversa da quella “virtuale”, priva di sottostante, creata dalle banche.
D. Perché, allora, sono state fatte politiche deflazionistiche?
R. Erano “necessarie” per salvare il capitalismo, cioè, il giocattolo dei capitalisti. Se tutta la moneta creata dal nulla fosse stata riversata nell’economia reale – cioè, se tutte queste banche d’affari che hanno ricevuto moneta dalle banche centrali l’avessero spesa per acquistare case, terreni, beni strumentali, aziende in fallimento, etc. – avremmo assistito a una fiammata inflattiva almeno del 60%! La moneta avrebbe perso completamente il suo valore. Di qui la necessità di politiche deflazionistiche (= distruzione della domanda), volte a compensare l’inflazione che le banche stavano accendendo e che per mesi è stata tenuta nascosta dai governi e dalle banche centrali. Infine, il lockdown, strumento di stampo sovietico, con cui i governi hanno imposto ai loro sudditi di non consumare né di produrre, permettendo solo di farsi recapitare a casa la busta della spesa da parte delle solite multinazionali a stelle e strisce. Tutte le restrizioni possono leggersi in questa luce: piogge incessanti di «lacci e lacciuoli» per paralizzare quel che restava dell’economia, al solo fine di contenere quella maledetta inflazione, che erode i rendimenti attesi di molti operatori finanziari. L’unico modo per far cadere i prezzi e comprare, poi, a poco, consiste nel neutralizzare il più possibile i consumi e/o i consumatori.
D. Perché le banche centrali non hanno subito arginato l’inflazione?
R. Per il semplice motivo che l’innalzamento dei tassi di interesse fa crollare il valore di mercato dei titoli detenuti dalle banche, molte delle quali in sofferenza. Se la BCE avesse subito innalzato i tassi d’interesse, le banche più esposte (cioè, quelle imbottite di titoli tossici) sarebbero andate in bancarotta, innescando un effetto domino che avrebbe polverizzato il sistema finanziario. Non è strano che la BCE, il cui obiettivo è quello di mantenere l’inflazione al 2% nell’intera area Euro, non abbia ancora innalzato i tassi d’interesse, con un’inflazione che potrebbe benissimo oscillare tra il 15% e il 20%? Perché la signora Lagarde non usa gli strumenti di politica monetaria per salvaguardare la capacità d’acquisto dell’Euro ma ha spesso auspicato nuovi lockdown? Perché il Governo Conte, per esempio, nel maggio del 2020, non ha fatto ricorso al mercato finanziario per contrastare la cosiddetta pandemia, nonostante il mercato avesse richiesto titoli per un valore di 100 miliardi di euro? Quando l’offerta di titoli del debito aumenta, aumentano anche i tassi di interesse e questo fa cadere il valore di mercato dei titoli già emessi, compromettendo la solidità patrimoniale delle banche. Questo non doveva accadere.
D. Dietro a queste politiche, c’è, dunque, dietro un disegno ben preciso?
R. Basta leggere i documenti programmatici di alcune istituzioni per capire senza ombra di dubbio, che si tratta di piani orchestrati a tavolino da menti scellerate e implementati da un bivacco d’ «utili idioti d’Occidente» (anche se in questo caso sarebbe più esatto dire “d’Oriente”). Qualche esempio sarà d’aiuto. Qualche anno fa, nel settembre del 2011, The Boston Consulting Group pubblicò un lavoro, dal titolo: Back to Mesopotamia? The Looming Threat of Debt Restructuring (Ritorno alla Mesopotamia? L’incombente minaccia della ristrutturazione del debito). Qui, il famoso gruppo internazionale di consulenza proponeva giustamente di ridurre il debito mondiale perché troppo oneroso. Si tratta dello stesso debito creato dalle banche centrali, dal momento che tutto ciò che è credito per qualcuno è debito per qualcun altro. Ebbene, la soluzione proposta fu quella di ristrutturare il debito con i risparmi delle famiglie e delle imprese non bancarie! Qualche anno più tardi, ecco la direttiva 2014/59/UE, che in Italia entrava in vigore il 1º gennaio 2016. Nasceva il “salvataggio interno”, alias bail-in, uno strumento necessario per prevenire o gestire i casi di insolvenza delle banche, con i risparmi dei loro clienti! Un altro esempio, un po’ più recente, è del 2020. Si tratta del famoso report Reviving and Restructuring the Corporate Sector Post-Covid. Designing public policy interventions del G30, in cui si condannano a morte le medie e piccole aziende – definite “zombie firms” – che non sono riuscite a far fronte alle limitazioni imposte dalle politiche sanitarie dei Governi Conte e Draghi. Non è un caso che quest’ultimo, oltre ad essere capo del Governo, fosse anche uno dei cofirmatari del report. Se, poi, ci inoltriamo in letture più filosofiche, come, ad esempio, Il futuro di Homo Sapiens di Giuliano Di Bernardo, non resta più alcun margine di dubbio circa la possibile intenzionalità di certe politiche. Qui, l’ex Gran maestro del Grande Oriente d’Italia svela candidamente i progetti di alcune élite, pregustando l’avvento di un unico governo mondiale, guidato da quello che lui chiama l’«Uno-dio».
In questo nuovo “mondo paradisiaco”, secondo il filosofo, esisteranno uomini-dèi e uomini-uomini, e questi ultimi saranno asserviti totalmente all’Uno-dio e alla sua stretta cerchia di saggi, grazie proprio al 5G, all’intelligenza artificiale e alle emergenze pandemiche. È l’ultima metamorfosi del capitalismo, che sganciatosi dal liberalismo e dalla democrazia si riveste di totalitarismo, per diventare «governo dittatoriale» globale.