Andrea Cinquegrani, La voce delle voci, 2 III 2019
MAFIE, STATO, MASSONERIA & AFFARI
ECCO “LA BESTIA”
Trame massoniche, affari, connection, misteri, delitti, poteri occulti, big della politica, riciclaggi, depistaggi. L’ultimo libro di Carlo Palermo, edito da Sperling è significativamente titolato “La Bestia – Dai misteri d’Italia ai poteri massonici che manovrano le democrazie”.
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Carlo Palermo è stato il giudice coraggio degli anni ’70 e ’80, autore di inchieste al calor bianco, pm di trincea a Trapani. Una sua maxi indagine, in particolare, scoperchiò un autentico vaso di pandora su traffici internazionali di armi & riciclaggio di danaro sporco, disegnando il ruolo di grosse imprese pubbliche che già all’epoca sotto il paravento di consulenze e sigle di comodo facevano girare tangenti a tutto spiano. Alla festa partecipavano anche banche in vena di riciclaggi spinti e pezzi di partiti, in particolare il Psi a gestione craxiana ma of course anche la Dc.
Subì un attentato a Pizzolungo il coraggioso giudice istruttore, e fu costretto ad abbandonare quella procura per trasferirsi in quella meno rischiosa di Trento. Ovviamente anche l’inchiesta ne uscì gambizzata e si perse tra le nebbie veneziane.
Continuò a fare il magistrato per un breve periodo e poi si diede alla professione di avvocato. E anche alla politica, militando nella nascente Rete di Leoluca Orlando. Nella veste di consigliere provinciale – lo abbiamo ricostruito giorni fa in una cover story – Palermo presentò un’interrogazione provinciale, e al tempo stesso un esposto-denuncia in procura, su una pista che aveva cominciato a seguire: quella di strani traffici di partite di emoderivati non solo in Trentino ma anche in Veneto.
Ed è proprio così che nacque la famosa inchiesta sul “sangue infetto”, durata alcuni anni, poi passata per competenza territoriale a Napoli nel 2003, con un processo cominciato ad aprile 2016 ed ora alle battute finali, con la sentenza prevista a giorni, il 25 marzo prossimo.
Le prime indagini trentine vennero fatte dalle fiamme gialle, che scoprirono dei magazzini frigoriferi in cui venivano ammassati scatoloni contenenti plasma ed emoderivati, insieme a partire di baccalà.
I primi libri scritti da Carlo Palermo furono editati dalla piccola ma battagliera Publiprint di Trento, che mandò alle stampa anche un paio di volumi firmati da padre Alex Zanotelli, quindi “O Ministro” sulle performance di Paolo Cirino Pomicino e “Sua Sanità” su quelle di Francesco De Lorenzo, in coedizione con la Voce.
Come avvocato, dal ’95 ad oggi Palermo si è occupato di grandi misteri, dalla tragedia del Moby Prince, “chiara” sotto il profilo storico (la responsabilità degli Stati Uniti è palese) ma senza lo straccio di una sentenza definitiva dopo quasi trent’anni; all’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, per il quale il pm Elisabetta Ceniccola e il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone hanno appena chiesto l’archiviazione per la seconda volta.
UN GLADIATORE A MOGADISCIO
Del giallo Alpi che rischia di rimanere in modo vergognoso senza giustizia, Palermo scrive nella sua “Bestia”. Uno dei personaggi clou, nel libro, è infatti un ex appartenente a Gladio che l’ex giudice istruttore incontra a La Spezia e intervista a lungo.
Ecco uno dei passaggi-base, a proposito della cosiddetta ‘operazione Lima’ che a suo dire “dovrebbe essere consistita nel recupero di circa 570 milioni di dollari e svariati milioni in promissory notes”, ossia cambiali internazionali.
Racconta il Gladiatore: “Craxi dovrebbe aver ricevuto, in utilità, un totale di 20 miliardi di lire. Il grosso però a quanto pare è finito in un’area di Mogadiscio controllata dall’imprenditore e trafficante Giancarlo Marocchino”.
Ad una domanda di Palermo circa la possibile provenienza dal Perù di danari e cambiali, risponde l’ex Gladiatore: “No, in questi 20 miliardi ricomprendo anche i contributi di svariata natura elargiti dal FAI”, vale a dire il “Fondo Aiuti Internazionali”.
Altra domanda di Palermo: “per cosa vennero utilizzati quei fondi?”.
Ecco l’inquietante risposta: “Vennero utilizzati in particolare per la costituzione della nascitura Forza Italia”.
Fa intendere, il misterioso intervistato, che la fonte dalla quale ha attinto le informazioni purtroppo non può più essere chiamato a testimoniare. Perché di tratta di Vincenzo Li Causi, rimasto ucciso in un altrettanto misterioso “incidente” in Somalia.
Scenari da brividi.
Ricomponiamo qualche tessera del mosaico. Il nome di Giancarlo Marocchino è stato il filo rosso che ha caratterizzato la prima inchiesta sul caso, quella condotta da pm Giuseppe Pititto, il quale era riuscito – unico nella lunghissima sequela di magistrati che si sono inutilmente susseguiti nella tragica farsa giudiziaria – ad afferrare il bandolo della matassa, ruotante intorno allo stesso Marocchino. Stabilì uno stretto e proficuo rapporto di collaborazione con la Digos di Udine, Pititto, e con ogni probabilità individuò la fonte rimasta sempre “anonima”, uno 007 dei servizi che tutto sapeva su esecutori e mandanti del duplice omicidio. Fonte ancora oggi incredibilmente “secretata” dai servizi di casa nostra, a questo punto primattori nel depistaggio.
L’inchiesta fu scippata a Pititto, che venne considerato “ambientalmente non compatibile”, trasferito in una procura del centro: dopo qualche anno, nauseato, lasciò la toga per finire in un cimitero degli elefanti, la società di servizi che per la Provincia di Roma (si chiama Ater) gestisce gli immobili pubblici.
Marocchino era stato l’ultimo a veder vivi Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, che lo avevano anche informato dei loro ultimi spostamenti.
QUEL POZZO CHIAMATO FAI
Passiamo al FAI, che all’epoca gestiva montagne di soldi pubblici destinati alla cooperazione. Un tema bollente sul quale Ilaria stava indagando, perché c’erano forti sospetti – e lei li stava documentando – che quei fondi venissero utilizzati anche per alimentare traffici di armi e di rifiuti tossici. Avevano appena percorso, qualche ora prima di essere trucidati, la Bosaso-Mogadiscio, lungo il cui percorso erano stati interrati decine e decine di fusti tossici; le foto sono state prodotte nel corso del processo dall’avvocato Douglas Duale, legale di Hashi Omar Assan, il somalo condannato da innocente (ha fatto 16 anni di galera) per il depistaggio organizzato al fine di trovare un mostro da sbattere in prima pagina (e in galera).
Il FAI aveva foraggiato non poche imprese italiane, tra cui la Techint del gruppo Rocca, a fine anni ’80 guidata da un rampante Paolo Scaroni (poi vertice Enel ed Eni), cugino di Margherita Boniver, allora responsabile Esteri per il Psi griffato Craxi.
L’affaire dei fondi Fai emerge anche nel corso di un processo intentato da un ex funzionario della Techint contro l’azienda, per via di spettanze non pagate. Una vicenda che suscitò l’interesse dell’inviato del Corsera Massimo Alberizzi, che ricostruì i movimenti di Techint in Somalia.
Da rammentare che l’allora presidente somalo Siad Barre era in ottimi rapporti con il Psi, ed in particolare con il ministro degli Esteri Gianni De Michelis. Tra le imprese di riferimento, oltre alla Techint, anche quelle del gruppo pugliese dei fratelli Pisante.
SULLE PISTE DELL’AGENTE RUTILIUS
Nelle pagine de “La Bestia” ricorre più volte il nome di Arnaldo La Barbera, l’ex capo della Polizia a Palermo, oggi considerato il depistatore numero uno per le indagini sulla strage di via D’Amelio e i primi processi Borsellino.
Al centro del depistaggio il “taroccamento” – o meglio la letterale “costruzione” a tavolino” – del pentito Vincenzo Scarantino, sulla scorta della cui testimonianza falsa vennero condannati sei innocenti che hanno scontato 16 anni (proprio come nel depistaggio Alpi). Nessuno, fino ad oggi, ha però verificato la catena di comando: La Barbera ha agito in modo del tutto autonomo o quanto meno ha condiviso il “taroccamento” con i magistrati titolari del fascicolo? Un rebus che dovrà essere sciolto dal tribunale di Roma, dove è iniziato il processo sul “depistaggio” che per ora vede alla sbarra 4 poliziotti i quali hanno fatto parte del team La Barbera.
Palermo ricostruisce un episodio di molti anni fa, quando nel 1996 un ex collega della procura di Torre Annunziata gli chiese un aiuto per rintracciare alcuni vecchi documenti. “Il 10 novembre 1996 andai a Venezia. Nell’archivio del tribunale scoprii che quegli atti erano quasi tutti spariti, distrutti, cancellati. Ne restavano frammenti in uno scantinato. L’inchiesta di Trento (quella già citata su armi & riciclaggi) era finita così, fatta a pezzi. La denuncia che presentai non ha mai avuto una risposta”.
Ebbe la piena consapevolezza, Palermo, di essersi “imbattuto in nomi importanti, non solo italiani ma anche stranieri. E tutto era collegato: dalla droga alle armi, dai servizi deviati al terrorismo, alla politica, dal Libano alla Sicilia, agli americani, e ai russi”.
Precisa Palermo: “Di sicuro l’inchiesta di Trento, sin dal suo inizio, nel 1980, apparve formalmente e frontalmente contrastata dalla polizia giudiziaria e dalla magistratura di Venezia; in particolare da un dirigente ben preciso della sua Questura, per la precisione quella di Mestre, Arnaldo La Barbera”. “L’investigatore ‘speciale’ La Barbera continuerà ad operare, anche di nascosto, per i nostri Servizi, il Sisde”: con il nome di ‘agente Rutilius’.
PATTI, TRATTATIVE E CONNECTION
Il ragionamento si dipana con la Trattativa e il Patto tra Stato e mafia. Scrive Palermo: “All’epoca dell’attentato di Pizzolungo chi comandava era Messina Denaro padre, don Ciccio. Quel patto non era soltanto tra alcuni settori del nostro Stato con la mafia, ma soprattutto tra gli Stati Uniti, Stay-Behind e Cosa nostra. Era stato imposto prima ancora dalla massoneria, in quanto supremo potere occulto. Sì, c’era quel mostro intuibile dietro Portella delle Ginestre, dietro il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro, dentro i palazzi vaticani contro papa Luciani e contro papa Woytila, così come a Valderice contro Ciccio Montalto, a Palermo contro Rocco Chinnici, a Pizzolungo contro di me, all’Addaura contro Giovanni Falcone, nelle stragi degli anni Novanta, a Civitavecchia, a Palermo, a Roma, Firenze e Milano contro chi avrebbe potuto osare di avvicinarsi alla verità”.
E ancora: “Tornerò a Trapani, a Pizzolungo e pure ad Erice: questa volta non lo farò per partecipare a celebrazioni. Cercherò di finire quel lavoro che lì ho iniziato e che ho dovuto interrompere. Qualcosa, sono sicuro, salterà fuori. Spero la verità”.
Così scriveva trent’anni fa nella prefazione al suo libro, “L’Attentato” edito dalla Publiprint di Trento, focalizzato sulle trame di Pizzolungo e poi dipanatosi in molti vicende e fatti estremamente inquietanti, già allora. “Fatti che si ripetono, episodi che solo dopo lunghissimi anni si chiariscono, nomi che ricompaiono. Fantasmi del passato e realtà presenti. Tra questi, ormai, da anni, si svolge la mia vita. Con difficoltà. Quella difficoltà di sentirsi troppo spesso impotente di fronte ad un sistema che ha le sue protezioni, le sue difese: un sistema che, se provi a sfiorarlo, prima ti isola, poi ti respinge, infine ti attacca, senza mezze misure. Spesso in modo indiretto. Attraverso fili sottili che non è facile scorgere. (…) Esistono ancora episodi in relazione ai quali, forse, ancora del tempo deve trascorrere per comprenderne, io stesso, il reale significato. E per avere la possibilità di scrivere l’ultimo capitolo di queste memorie: l’epilogo della lunga storia di una indagine incompiuta e della vita di un giudice che, in conseguenza di questa indagine, non è più un giudice”.