intervista di Nicola Mirenzi, Huffington post, 16 X 2016.
Lo scrittore Giuseppe Culicchia a Huffpost:
“Siamo vittime e carnefici dei luoghi comuni”
Elenco dei luoghi comuni della settimana: “Muore Dario Fo e non resistiamo all’impulso di definirlo: ‘giullare’”. Poi, Bob Dylan vince il premio Nobel per la letteratura e, “automaticamente, diventa ‘il menestrello’”. Siamo come i vicini di casa dell’assassino, che, puntualmente, commentano stupiti: “Sembrava una così brava persona”. Giuseppe Culicchia – scrittore, traduttore, saggista, autore di uno spiritoso e spietato dizionario della nostra stupidità, “Mi sono perso in un luogo comune” (Einaudi, 240 pagine, 14,50 euro) – è convinto che dai luoghi comuni è impossibile sfuggire. Ci perseguitano. E noi perseguitiamo gli altri, usandoli: “Nella politica, nella comunicazione di massa, in ascensore con gli estranei, al bar con gli amici, ma anche quando siamo soli e pensiamo per frasi fatte”. Siamo una repubblica (af)fondata suoi luoghi comuni. E la situazione, con il tempo, tende al peggio.
Perché?
Quando ne scriveva Flaubert, i luoghi comuni si trasmettevano molto più lentamente. Oggi, invece, la tecnologia li diffonde in maniera rapidissima: basta un attimo e il luogo comune si proietta dappertutto.
Lei di che luogo comune ha sofferto?
Per anni, sono stato “il giovane scrittore”. Oggi, per fortuna, ho passato i cinquanta.
Ed è diventato il “solito stronzo”, come Alberto Arbasino definiva la seconda tappa dell’ascensione nel mondo delle lettere?
In realtà – dice scherzando -, sono già stato nello studio di Fabio Fazio, dunque mi reputo all’ultimo livello: quello del “venerato maestro”.
Sta dicendo che “Che tempo che fa” è il il tempio del luogo comune?
Sono i mezzi d’informazione in generale i grandi produttori e diffusori di luoghi comuni. Il pubblico viene, pericolosamente, contagiato.
Nessuno ha più un’idea tutta sua?
No, esiste ancora il pensiero originale: ma nel momento stesso in cui diventa pubblico perde immediatamente la sua originalità. Viviamo in una perversa e inarrestabile macchina che stritola tutto e trasforma anche le idee più singolari in banalità. E non si scampa: siamo tutti vittime e carnefici di questo meccanismo, perché tutti subiamo e utilizziamo luoghi comuni.
Alcuni però sono più odiosi di altri.
I peggiori sono quelli che nascondono un’ipocrisia o una matrice ideologica. Per esempio, l’espressione “bombardamenti umanitari” non riesco a farmela andar giù. Come l’altra: “Esportazione della democrazia”. Sono un misto tra la propaganda e l’ipocrisia. Celano la realtà, perché questo vuole il pensiero unico nel quale siamo immersi.
Ops, ha pronunciato un altro luogo comune: “Pensiero unico”.
Glielo avevo anticipato: per quanto ci sforziamo, non riusciremo mai a sfuggirgli. Nel suo romanzo 1984, George Orwell profetizza l’affermazione di una neo-lingua che riduce progressivamente il vocabolario. Distruggere le parole per arrivare a impedire un pensiero complesso. Si guardi intorno, ci siamo.
Ma il luogo comune ha qualcosa di reale?
Nel luogo comune, come nello stereotipo, c’è sempre un frammento di verità. È anche quello che ci infastidisce: vederci specchiati dentro. Ed ecco che, anziché guardarci come siamo nella foto, preferiamo farci un selfie e abbellire il ritratto con i filtri disponibili nelle applicazioni degli smartphone.
Il luogo comune più assurdo in cui è incappato.
I carboidrati. Ci dicono che “sono alla base della dieta mediterranea, la sola che non faccia ingrassare”. E poi, però, che “per non ingrassare è bene evitarli”. Un luogo comune contraddice l’altro, testimoniando che viviamo in un’epoca in cui vale tutto, una cosa e il suo contrario. È divertentissimo.
Però lei è anche feroce con i luoghi comuni.
Amo molto “Istruzioni alla servitù” di Jonathan Swift: un libro molto comico, ma durissimo con l’aristocrazia del suo tempo. Così come ho sempre trovato geniali Stanlio e Olio che andavano a pulire il camino di una casa americana e finivano per distruggerla. Noi bambini ridevamo tantissimo. Però, se ci fa caso, distruggevano i simboli del sogno americano: la casetta con il giardino, il soggiorno, il caminetto.
Significa che certe cose si possono dire solo ridendo?
Sì, perché altrimenti bisognerebbe passare ai fatti e sospendere le regole democratiche. Era il progetto folle e meraviglioso di Gustave Flaubert, che voleva scrivere un’opera – rimasta incompiuta – in cui far parlare i suoi personaggi con tutte le frasi fatte dell’epoca. Dopodiché, il lettore avrebbe dovuto tacere per sempre, consapevole di non poter sfuggire al già detto.
Oggi c’è l’aggravante del politicamente corretto.
Se ci sono delle vittime civili in un conflitto armato, perché diciamo che sono “danni collaterali”? Credo che sia molto più violento usare una terminologia ipocrita che non dire le cose come stanno. Questa pulizia del linguaggio è estremamente pericolosa. Ci porta a credere nell’irrealtà.
Partito democratico: è l’unica voce del suo libro che non ha una definizione.
Facevo veramente fatica a capire cosa scriverci. Anche il PD, del resto, non sa definire ciò che è. Dunque, ho pensato che fosse meglio lasciare la voce in bianco.
Perché c’è Berlusconi ma non Grillo?
Perché Berlusconi ha lasciato un segno nella storia politica italiana, Grillo ancora no. Detto questo, non so se i comici facciano bene a scendere in politica, ma a volte le loro analisi sono state più vicine alla realtà di quelle fatte da tanti commentatori che scrivono sulle prime pagine dei giornali.
Quanti luoghi comuni ha sentito in questa campagna referendaria?
Personalizzazione. Svolta autoritaria. Pro o contro Renzi. Diminuzione dei costi della politica. Semplificazione. Riforme. E il combinato – ovviamente – disposto.
La politica si può permettere di fare a meno dei luoghi comuni?
No, ma per concludere con un altro luogo comune, dovrebbe almeno avere la capacità di guardare oltre.