Davide Brullo per Il Giornale, in Dagospia 11 IX 2017.
“PENSO COME UN GENIO, SCRIVO COME UN AUTORE EMINENTE E PARLO COME UN BAMBINO”
I GIUDIZI MEMORABILI DI NABOKOV: “HEMINGWAY INSOPPORTABILE; BRECHT E CAMUS INSIGNIFICANTI, ‘DELITTO E CASTIGO’? UNA LITANIA ATROCE, IL SUCCESSO DEL ‘DOTTOR ZIVAGO’? UNA TRUFFA” – IL DISPREZZO PER LA BEAT GENERATION.
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Visitare Vladimir Nabokov nel suo studio era come fare un tour nel cervello di Dio il giorno prima della creazione. Lo studio era spoglio, pieno di schede. Sulle schede, Nabokov appuntava brandelli di romanzo. «Non scrivo di seguito, partendo dal principio per passare al capitolo successivo», raccontava a un giornalista, nel 1962, «mi limito a riempire i vuoti del quadro del puzzle che ho ben chiaro in mente prendendo un pezzo qua e un pezzo là».
Le schede, poi, impilate, chiarite, limate, davano come risultato il romanzo. Nabokov, che per passare il tempo creava enigmi per gli scacchi, era un entomologo di genio, «per circa quindici anni, dopo essermi trasferito in America nel 1940, ho dedicato un’enorme quantità di tempo più ancora di quanto ne abbia concesso alla scrittura e all’insegnamento allo studio dei lepidotteri».
Catturava farfalle, «non poche farfalle sono state battezzate con il mio nome, e in questi casi il mio nome diventa nabokovi». In certe foto lo si vede maneggiare un enorme acchiappafarfalle, la rete è delicata e traslucida come il velo da sposa di una zarina. Con la stessa acribia, Nabokov, il più intelligente scrittore dell’Occidente moderno, catalogava, pinzava e metteva sotto teca i suoi personaggi.
Nel 1969 la rivista Time gli dedica la copertina. Il romanziere, che vantava una discendenza da Gengis Khan («pare abbia messo al mondo il primo Nabok, un principotto tartaro del dodicesimo secolo che sposò una damigella russa») e il cui genitore, Vladimir Dmitrievich Nabokov, già Ministro di giustizia sotto lo zar Alessandro II, fu ucciso da «due biechi manigoldi, il 28 marzo 1922, durante una conferenza a Berlino», è ritratto con la testa ampia, qualche farfalla che svolazza intorno al cranio, gigantesco, la cattedrale di San Basilio sopra la spalla destra e il titolo, roboante, «Il romanzo è vivo. E vive in Antiterra».
Il titolo fa riferimento al romanzo pubblicato quell’anno da Nabokov, Ada o ardore, ambientato nel mondo parallelo di Antiterra. Ada è il sesto romanzo scritto in inglese (non il più bello, ma il più complesso) di uno scrittore che ha saputo scrivere capolavori in russo (La difesa di Luzin e Il dono, ad esempio), quando, in esilio dalla Russia «rivoluzionaria» («in Russia, nemmeno il genio può salvare») viveva tra Berlino e Parigi («deve sapere che eravamo disperatamente poveri e io davo lezioni di tutto, di tennis, di boxe, di grammatica»), ed è installato dalla Modern Library, con tre libri (Lolita, Fuoco pallido e Parla, ricordo), tra i 100 capolavori della letteratura in lingua inglese del Novecento.
Secondo la leggenda, Nabokov odiava essere intervistato («mi vanto di essere una persona priva di interesse per il pubblico: non mi sono mai ubriacato, non dico mai le parolacce, non c’è nulla che mi annoi quanto i romanzi politici e la letteratura a sfondo sociale») e disprezzava le interviste. Secondo la leggenda, Nabokov negava la pubblicazione di interviste che non fossero raffinate dal suo maglio linguistico. «Le domande dell’intervistatore devono essere inviate per iscritto, ricevono risposte scritte, e le risposte devono essere riprodotte alla lettera».
Nel 1973 Nabokov fu diabolico: estrasse alcune interviste dal suo archivio (una ventina), le rassettò a dovere, riscrivendole, poi le pubblicò come Strong Opinions (in Italia ha tradotto tutto Adelphi in Intransigenze, nel 1994). Il volume era adornato da una prefazione d’autore, dall’incipit superbo, da romanzo: «Penso come un genio, scrivo come un autore eminente e parlo come un bambino». Ora, quarant’anni dopo la morte di Nabokov anche gli dèi, infine, finiscono sotto terra Robert Golla, in Conversations with Vladimir Nabokov (University Press of Mississippi, pagg. 224, $ 60.00), stampa le restanti interviste, così come furono pubblicate, tra il 1958 e il 1977.
Comunque lo leggi, Nabokov è sempre corrosivo e salutare: disprezza la Beat Generation («non m’interessano le scuole o i movimenti, non appartengo ai club»), dileggia «le pretenziose assurdità di Mr. Pound, quell’impostore integrale», ritiene una truffa il successo planetario del Dottor Zivago («i sovietici spararono ipocrite bordate contro il romanzo di Pasternak allo scopo di aumentare le vendite all’estero un qualsiasi russo intelligente capirebbe subito che è un libro filobolscevico»), ama Anna Karenina («il supremo capolavoro della letteratura dell’Ottocento») ma «detesto ardentemente I fratelli Karamazov e quella atroce litania che è Delitto e castigo, adora l’Ulisse di Joyce ma «inorridisco davanti a Finnegans Wake» e «non sopporto Hemingway» e «Brecht, Faulkner, Camus per me non significano un bel niente e devo farmi forza per non sospettare un complotto contro il mio cervello quando vedo critici e colleghi scrittori che ne parlano come di grande letteratura». Nabokov, cannibale del linguaggio, lo scrittore che edificò l’impero della pura individualità contro le «spaventose insulsaggini della propaganda sovietica», rischia di essere più interessante dei suoi arzigogolati romanzi?