Anthony Distefano, 95047.it, 9 XI 2015
UN GRANDE RACCONTO SU PATERNÒ: ECCO L’ULTIMO LIBRO DI NINO TOMASELLO
“Paternò 1860-1918, Cronache” traccia il solco in buona parte sconosciuto della storia paternese: di una città che sarebbe potuta essere “capoluogo”, che non volle l’arcivescovado e che oggi fa i conti con i gattopardi. “L’arancia rossa? Si sarebbe dovuta vendere in farmacia”
Ritrovarsi a confrontare su Paternò con Nino Tomasello – il professore Tomasello – per uno della mia generazione di paternesi è sempre un viaggio forte: mai scontato e banale. Le sue parole urgenti e pensate sono il mare aperto nel quale lasciarsi andare senza esitazione alla traversata: le sue frasi mai buttate a casaccio ne rivelano la statura morale; i suoi racconti sono la generosità con la quale ha vissuto e continua a vivere la sua città. E come accade a tutte (o quasi) le persone illuminate e coerenti, una certa politica nel corso degli anni si è guardata bene dal fargli acquisire quella “notorietà” che avrebbe, probabilmente, mandato in tilt buona parte del sistema. Già. Perché Nino Tomasello è sempre stato uno che non si è mai lasciato irretire dall’affondo violento; dal costante gattopardesco trasformismo siciliano e, di conseguenza, paternese. Lui è sempre stato un passo avanti nella visione di un territorio del quale Paternò avrebbe dovuto essere “capoluogo” anzichè ridursi a periferia.
“Paternò 1860-1918, Cronache”. Uno spaccato della storia paternese, dall’Unità d’Italia e sino alla fine della Grande Guerra, in parte sconosciuto e che costituisce il suo ennesimo atto d’amore nei confronti della città: “La macrostoria – spiega Tomasello – spesse volte rischia di non essere pienamente compresa per il fatto che non ha un rapporto con la microstoria. Quando parliamo dei romani ne parliamo, ad esempio, per il fatto che promulgavano le leggi o perché a Paternò costruiscono il Ponte romano? Della Prima Guerra mondiale ne parliamo per quello che accadeva nel pianeta o per le ripercussioni avute nel nostro territorio? Collegare i micro-eventi significa contribuire a dare una identità a chi l’ha dimenticata”.
La crisi della città: che non è un argomento astratto.
“Il problema della crisi della città nasce anche per una caduta dell’identità della città stessa. Una identità che abbiamo perso da parecchio tempo. E non è un caso. Io le cose riportate in questo libro le avevo in parte raccolte: mi sono messo alla ricerca di altri documenti, che sono pubblici, trovando anche un editore che segue questo percorso”.
Ci sono chiavi di lettura che possono essere rapportate ad oggi.
“Gli elementi che reggono le comunità e le città sono più o meno costanti: fatti da uomini e donne del tempo. Obiettivo della storia è quello di far cogliere i cambiamenti ed oltre i cambiamenti far cogliere i problemi che sono strutturali. La nostra città ha una grande fortuna che è la sua geografia: siamo al centro della Valle del Simeto e dinanzi all’Etna. Solo che, probabilmente, non memorizziamo”.
E’ qualcosa che non può più essere recuperato?
“Beh, io faccio la differenza tra fare il turista ed essere viaggiatore. Ecco, noi non riusciamo a viaggiare “dentro di noi”: a ripercorrere quello che siamo stati e quello che i nostri nonni, ad esempio, hanno costruito. Certamente, questo passato va conosciuta la vita quotidiana del passato con quella di oggi: e, probabilmente, scopriremo che c’è qualcosa in comune. Io credo che bisognerebbe lavorare, ognuno per la propria parte, a ricostruire questa memoria straordinaria”.
Quelli della mia generazione hanno sempre ascoltato “quelli più grandi” ripetere come una litania: “Questa città potrebbe, questa città se volesse”. Insomma, si parla di Paternò sempre di una città dalle potenzialità inespresse.
“La nostra città è un capoluogo laddove per capoluogo intendo che Paternò è centrale nell’asse Simeto-Etna. Il passato va ri-conosciuto attraverso informazioni non generiche. Questa è una città che nel 1820 ebbe l’offerta di divenire sede vescovile eppure non se ne fece niente: Acireale l’avrà settant’anni dopo e perché la richiederanno i loro cittadini. Paternò, diceva il grande Padre Di Giovanni, è la madre della nobiltà catanese. Tutte le grandi famiglie della nobiltà catanese ma anche palermitana portano questo cognome: Paternò. Recenti ricerche dimostrano che Ruggero vinse una battaglia con un Conte che proclamò di Paternò e ne fissò il nome nel primo Tempio di Catania”.
Cosa si augura che rimarrà ad un lettore dopo avere letto il suo libro?
“Questo lavoro tende a dare una chiave strutturale metodologica. Oggi, che è tutto sfaldato, ci serve capire dove abbiamo mancato? Cosa non abbiamo fatto per andare avanti? Allora, bisognerebbe ricostruire un filo della memoria. Paternò non è la capitale del mondo, è chiaro: ma la Terra è sferica e ognuno è centrale”.
Ritrovare la nostra centralità. E’ un concetto da approfondire.
“Certamente. Porto un esempio. Conoscere che una volta in piazza Indipendenza – che si chiamava piazza dei Canali – c’era una statua del dio Simeto e so che, poi, fu trasferita e poi ancora demolita per fare il Monumento dei Caduti, colgo elementi negativi di una precarietà permanente. Quasi che la città è sempre precaria perché demolisce sempre il passato. Di certo, i gattopardi ci sono ancora. Anziché essere sconfitti, i gattopardi sono aumentati: per cui, la città viene usata senza lasciargli il minimo vantaggio. Parliamo da una vita dell’arancia rossa e non ci si è mai preoccupati, seriamente, di costruirvi attorno un tessuto sociale e industriale: fosse stato così oggi l’arancia rossa sarebbe stata venduta in farmacia”.
* * *
Bel lavoro, quello di Nino Tomasello al quale mi lega una conoscenza antica. Ci dà un’idea più compiuta, finalmente, e a tratti anche disincantata, di un cinquantennio di storia paternese (1860 – 1918) per certi versi misconosciuto. E mi riporta per associazione a un altro scritto: “Dai Normanni ai Democristiani, Storia di un gruppo dirigente” – ove si narra di Paternò, stavolta in prima persona, una storia più recente (il cinquantennio 1943 – 1993) e quindi ancor più “nostra” – opera di Nino Lombardo al quale mi lega un altrettanto antico apprendimento.
(Giuseppe Cicero)