Nicola Biondo e Andrea Cottone , Antimafia 2000, 7 IV 2014.
Non è un Paese per onesti – PM Nino Di Matteo
In un Paese in cui lo Stato processa se stesso, in cui il presidente della Repubblica finisce intercettato con un indagato e schiaccia una procura contro la “sua” Corte Costituzionale, chi porta avanti un’inchiesta per l’accertamento della verità viene isolato, minacciato, processato dai suoi stessi colleghi e poi, ovviamente, si fa di tutto per togliergli quelle carte di mano.
Nino Di Matteo, pm di Palermo sotto scorta, non può più vivere come una persona libera. Sacrificio a cui non si contrappongono riconoscimenti istituzionali o l’appoggio delle più alte sfere dello Stato. Tutt’altro. Ma va bene così.
“I momenti di perplessità e di scoramento sono tanti e non appartengono soltanto al passato” dice Di Matteo, ma sono superati dall’ “entusiasmo per il lavoro che faccio, che era quello che desideravo fare quando ho iniziato i miei studi di giurisprudenza, e che è obiettivamente entusiasmante, là dove proceda per l’accertamento della verità”. È questa passione che “fa prevalere in me, così come nei miei colleghi, la forza di andare avanti nonostante tutto, nonostante la consapevolezza che questa inchiesta, che questo tipo di lavoro, certamente non paghi ai fini della carriera, ai fini del quieto vivere, ai fini dell’aspirazione a nomine per uffici direttivi o altri incarichi importanti. Non ha importanza, noi facciamo i magistrati, abbiamo giurato sulla Costituzione e la cosa più bella ed entusiasmante che ci possa capitare è quella di avere la consapevolezza di cercare con tutti i nostri limiti di fare il nostro lavoro senza condizionamenti, paure, tentennamenti”.
L’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, indirettamente, è arrivata fino al Quirinale con quelle telefonate fra Napolitano e l’ex senatore Mancino che dovevano essere distrutte a ogni costo e che nei cittadini hanno lasciato un enorme dubbio. “Abbiamo fino dall’inizio rilevato e anche esternato che quelle intercettazioni non erano penalmente rilevanti” spiega Di Matteo, orgoglioso di come sui giornali non sia uscita neanche una parola. Eppure non è la prima volta che la voce del Capo dello Stato viene incisa su un nastro dagli investigatori. È già accaduto, a Milano e a Firenze, con Scalfaro e con lo stesso Napolitano. Quelle intercettazioni, invece, “erano state trascritte dalla polizia giudiziaria, cosa che non è avvenuta in questo caso, depositate agli atti del processo, cosa che non è avvenuta in questo caso, e finirono sulle pagine dei giornali, cosa che non è avvenuta in questo caso. Ebbene, per gli altri casi non fu sollevato il conflitto di attribuzioni, in questo caso è stato sollevato. Questo è il dato di fatto” aggiunge Di Matteo, che in verità fra Quirinale, CSM e Riina non sa da chi doversi guardare prima.
Dopo l’intervento senza precedenti del Presidente della Repubblica che ha portato il caso fino alla Consulta per difendere la sua “inviolabilità”, ci si sono messi anche i suoi colleghi: lo hanno sottoposto a un procedimento disciplinare che, secondo lo stesso pg della Cassazione che ha sostenuto l’accusa, non aveva ragion d’essere (tanto è vero che oggi è stato prosciolto, ndr). E accanto allo Stato, fra Quirinale e Csm (a capo di entrambi Giorgio Napolitano), non poteva mancare la mafia, con la voce più pesante, autorevole e terrorizzante: quella di Totò Riina. L’ha giurata a quel magistrato con la schiena dritta che va avanti nonostante i molteplici attacchi. “Tecnicamente, perdonerete la precisione pignola, non sono delle minacce – spiega Di Matteo – perché fino a prova del contrario Riina non sapeva di essere ascoltato e quindi non sapeva che il minacciato, tra virgolette in questo caso io, lo stesse ascoltando, e allora non sono delle minacce, ma sono più che altro esternazioni, auspici, per non dire ordini di morte nei miei confronti”. Riina ha condanne per secoli e secoli di carcere sulle spalle, come possa temere un processo in più o uno in meno non è dato sapere. Ma “c’è un motivo, contingente, legato alla paura, al timore che Riina certamente ha sulla possibile emersione di suoi rapporti esterni nel periodo delle stragi. Però – prosegue Di Matteo – credo che ci sia anche un aspetto di natura più generale da considerare, e cioè il Riina evidentemente auspica un ritorno a una strategia di violenta contrapposizione allo Stato che invece da quando si è verificata la cessazione delle stragi del ’93 Cosa Nostra ha abbandonato”. Insomma, una questione di DNA e “Riina è convinto che -anche al fine di negoziare i propri, non soltanto propri, personali, ma i rapporti della mafia con l’organizzazione statuale- le bombe, gli omicidi eccellenti siano sempre il viatico migliore”.
Con un fuoco incrociato del genere non poteva mancare qualcun altro per provare a scippare quel processo e quell’inchiesta a Di Matteo. A provarci è un altro pezzo di Stato seduto sul banco degli imputati: gli ex Ros Subranni, Mori e De Donno che, preoccupati dei riflessi di ordine pubblico dopo le terribili minacce di Riina, hanno chiesto che il processo si spostasse in altra sede. Ricominciando da zero. E la procedura, questa volta, è stata fulminea, tanto che il 18 aprile la Cassazione emetterà il verdetto. “È un fatto assolutamente importante e grave, mi stupisce, ma forse non troppo, considerata la disattenzione generale per il problema, per la vicenda della trattativa, constatare come gli organi di stampa non ne abbiano sostanzialmente dato notizia, se non nella prima battuta, nella prima fase, senza appunto chiedersi ciò che deriverebbe non soltanto dallo spostamento del processo, ma da un accoglimento che sancirebbe un principio devastante, e cioè che la violenza o la minaccia di un imputato nei confronti dei magistrati che hanno istruito il processo e che rappresentano la accusa nel processo può fare spostare il processo dalla sede naturale. Cioè sostanzialmente nel caso di accoglimento si determinerebbe anche un precedente molto pericoloso, devastante per il futuro, per cui la violenza nei confronti dei magistrati che celebrano il processo potrebbe indurre a violare il principio costituzionale del giudice naturale”.
Tutto ciò non può non portare alla considerazione che, evidentemente, questi giudici abbiano toccato qualcosa che ha fatto saltare i nervi a tutti i livelli – sia nello Stato che nella criminalità organizzata – senza, magari, neanche accorgersene. “Certe volte questa stessa domanda me la pongo anche io – dice Di Matteo – ce la poniamo con i nostri colleghi, e obiettivamente non so risponderle. Qualche volta abbiamo avuto la sensazione in esito a determinate reazioni che ci sono state al progredire delle nostre indagini anche di avere potuto, senza averne piena consapevolezza, sfiorare delle verità forse troppo scomode”.
Di Matteo ha una sua idea dell’evoluzione del rapporto fra criminalità e politica, e il brodo di coltura nel quale si sviluppano è quello della corruzione: “È proprio attraverso quelle condotte, di corruzione, di abuso di ufficio, di turbativa d’asta, condotte commesse da pubblici ufficiali o da soggetti che collaborano con i pubblici ufficiali, che le mafie riescono a penetrare il potere”. Perché in questo Paese si prende sempre la scorciatoia di scaricare tutto addosso ai magistrati, di regolare tutto col diritto penale, mentre altri sarebbero i principi da far valere “fare valere responsabilità di tipo diverso, di tipo politico, di tipo deontologico, di tipo disciplinare”.
E dopo un viaggio attraverso un incubo, il magistrato dalla schiena dritta qualche sogno lo continua a coltivare. Primo quello di riconquistare una propria libertà personale. Ma anche “quello di contribuire, anche un minimo, senza enfatizzare mai né il mio ruolo, il mio lavoro, il nostro lavoro, a cercare di fare vivere i miei figli, i nostri giovani, in un paese diverso, dove non ci siano la libertà e la democrazia condizionate e fortemente limitate dalla illegalità, dalla corruzione, dalle mafie. Questo è il mio sogno, ma anche la mia speranza” chiude Di Matteo che auspica anche un futuro diverso per la magistratura italiana. “Il sogno di una magistratura che per prima coltivi al suo interno l’autonomia e l’indipendenza, non soltanto difendendosi dagli attacchi esterni, ma anche dagli attacchi interni, cioè dalla tentazione di mutuare dalla politica le peggiori logiche, per esempio quelle per cui l’autogoverno della magistratura è determinato dalle logiche delle correnti. Una magistratura che all’interno di ciascun magistrato recuperi l’essenza fondamentale della consapevolezza di dovere rispondere soltanto alla legge e di non perseguire mai il risultato più opportuno, ma quello più conforme alla legge, alla giustizia e verità”.