Roberta Scorranese, Corriere della Sera, 24 VII 2021
Intervista a Rosellina Archinto
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Rosellina Archinto, ma quello è un Lucio Fontana?
«Sì, e quello dietro è un disegno di Fausto Melotti. Poi ci sono i due magrittini, la mia passione. Quando ero giovane guadagnavo quarantamila lire al mese e sa che cosa ci compravo? Quadri. Oggi, ogni tanto, qualcuno dei miei figli viene qua e comincia a frignare: mamma, ma perché non mi dai questo, perché non mi dai quello? Manco per sogno, sono miei e finché campo me li voglio godere qui».
Milano, centro storico, una casa con terrazza e luce, tanti oggetti intorno, una intera libreria fatta solo di epistolari e una signora allegra che ride, parla e fuma come se avesse ancora vent’anni e ancora dovesse fare tutto quello che ha poi fatto: ha fondato tre case editrici (prima donna in Italia), una se l’è ricomprata a 82 anni, ha vissuto un matrimonio e un (secondo) lungo amore. Ha 88 anni, ma Rosellina Archinto è sempre la stessa: puntuta e divertente, gentile ma con una ruvidezza genovese.
A Genova, però, lei ci è rimasta poco.
«Era il 10 giugno del 1940 quando papà ci annunciò che era scoppiata la guerra. Ricordo che gli dissi: “Babbo ma finirà entro il mese, in tempo per il mio compleanno, vero?”. Mi rispose di sì. Ma poi ce ne dovemmo andare. Trieste, Conegliano, Venezia. Papà ebbe degli scontri con la Xª MAS, rischiammo grosso».
Poi Milano. Università Cattolica, giusto?
«Sì, a Economia noi donne eravamo delle mosche bianche, un paio, al massimo tre se la memoria non mi tradisce. Ricordo padre Agostino Gemelli che ci puntava addosso un artiglio minacciando: “Sei falsa, sei falsa”. Poi quando una andava al gabinetto ci trovava la scritta “Chi si trucca è falsa”. Che angoscia. Ma io il grembiule lo portavo slacciato, mica potevo ingabbiarmi in quel modo a vent’anni».
È stato alla Cattolica che ha incontrato il conte Archinto?
«Dolce, gentile. Oddio, forse un po’ troppo. Chiariamo una cosa: a me Alberico piaceva, gli volevo bene e del fatto che fosse nobile non me ne importava niente. Però dopo il matrimonio mi portò a vivere con i suoi. Con sua madre. E ho detto tutto. Poi abbiamo fatto cinque figli. In soli sette anni, eh».
Tanti.
«Sì, e quando nacque l’ultima andai dal mio ginecologo e gli dissi: “Adesso basta, chiudi tutto”. Lui rispose: “Te lo stavo per dire io».
Due anni a New York insieme e poi il ritorno in Italia, con la decisione di fare libri per bambini, sì, ma molto raffinati.
«All’epoca la letteratura per l’infanzia era una cosa orribile: bambine ricciolute, testi mielosi. Io volevo fare libri prima di tutto belli. Così alla Emme Edizioni chiamai Leo Lionni e Lele Luzzati, ma anche Bruno Munari. Erano artisti, cercavano la bellezza. Poi venne Enzo Mari, raffinatissimo. Ma lei pensa che questo mi fece ottenere credibilità a Milano?»
Perché no?
«Perché i grandi editori disprezzavano i miei “libretti”, così li chiamavano. Pensavano fosse il passatempo di una donna ricca e annoiata, non mi hanno mai preso sul serio. Tranne due persone: Giovanni Enriques, il patron della Zanichelli, e Giangiacomo Feltrinelli. Pensi che ero una delle poche persone che Giangi contattava una volta entrato in clandestinità».
Quanto pesava l’essere una donna?
«Tanto. Perché quella che era una raffinata forma di editoria d’arte diventava automaticamente un giocattolino se in mano a una donna, perdeva spessore. Però quelli veramente grandi capivano. Ricordo che a Portofino c’era Arnoldo Mondadori che, seduto in piazzetta, quando passavo io batteva a terra il suo bastone e diceva: “Sei brava, Archinto, sei brava”».
Poi un giorno lei lasciò il conte.
«Eravamo alla fine degli anni Sessanta, il divorzio manco c’era. Fu uno scandalo: una madre di cinque figli che lascia la casa. Mezza Milano mi tolse il saluto».
Addirittura?
«Sì, perché avevo abbandonato Alberico e mi ero messa con Leopoldo Pirelli. L’accusa, sottile, era che avevo lasciato un vero aristocratico per mettermi con un borghese ricco».
Come ha conosciuto Pirelli?
«A una cena in casa di amici. Facevamo i giochi di società, lui rimase colpito dal numero di risposte esatte che sapevo dare. Cominciò a corteggiarmi: lo ha fatto instancabilmente per sei anni, finché gli ho detto di sì».
Come la corteggiava?
«Me lo trovavo dappertutto. Un giorno salii sul treno per andare a Losanna per lavoro. Me lo trovai davanti. Gli dissi: “Ma dove vai?” E lui: “Io vado dove vai tu”. Mi amava, sì, mi amava».
E così lei alla fine capitolò.
«Ci mettemmo insieme nel 1971 ma io non ho mai divorziato da mio marito, non si usava. E con Poldo non abbiamo mai abitato assieme: avevo cinque figli, mica potevo dare loro un nuovo padre a cuor leggero. È andata benissimo così».
Veniamo alle lettere, agli epistolari che la sua casa editrice Archinto pubblica ormai da decenni. Come mai questo genere?
«Ma perché certi scrittori sono meglio nelle lettere che nei romanzi. Come Rilke, per dire».
Qual è stato il primo epistolario pubblicato?
«Le lettere di George Sand a de Musset. E poi 84 Charing Cross Road, ancora oggi un best seller. Mi capitarono tra le mani le lettere di Mahler alla moglie ma non le pubblicai».
E perché?
«Ma perché invece di chiederle come stava le parlava delle sue emorroidi! Come faccio a pubblicare Mahler che parla di emorroidi?».
Va detto che molti grandi scrittori nelle epistole diventano una lagna infinita.
«Ma davvero. Prendiamo Nietzsche: quando scrive alla mamma e alla sorella parla solo dei disturbi di stomaco e tempo brutto. Che rompi…».
Lei ha pubblicato da poco le lettere di Montale a Margherita Dalmati, alcune delle quali sono esplicitamente erotiche.
«Sì ma Montale si innamorava un giorno sì e uno no. Io l’ho conosciuto e quando l’ho incontrato mi tremavano le gambe: il premio Nobel, le poesie. Poi ho cominciato a pubblicare le sue lettere e mi sono cadute le braccia: gli piacevano tutte!».
Certo che leggendo decine di epistolari lei conosce le tresche di tutti.
«Può dirlo forte. E pensi che l’epistolario più bello non l’ho potuto pubblicare. Quello tra Alberto Savinio e una signora di Trieste. Niente di sconcio: lui prendeva il treno da Roma, lei dalla sua città e si incontravano alla Stazione di Milano. Si sedevano su una panchina e parlavano. Così per anni, una volta al mese. Capisce? Parlavano e basta. E quelle lettere, mi creda, sono bellissime. Ma la figlia mi supplicò di non pubblicarle. Vabbè».
Lei sta lavorando alle lettere di Sereni.
«Vittorio era simpaticissimo. Mi diceva, scherzando: “Non dire a mia moglie che a Francoforte ci divertiamo, sennò vuole venire pure lei”. Non aveva amanti, solo amici e amiche, eppure era fatto così».
Chi era il più donnaiolo di tutti?
«Mario Soldati. Impenitente. Ma pure Calvino non scherzava. Quando lui morì io volevo pubblicare le lettere a Elsa De’ Giorgi ma Chichita (la moglie, ndr) mi pregò di non farlo».
La Archinto ha un catalogo strepitoso. Non ingolosisce nessun grande editore?
«Molti si fanno avanti, a me piacerebbe che finisse in buone mani, vedremo. Il problema è che oggi nell’editoria non tutti puntano alla qualità e quello che faccio io è un lavoro che non è certo di quantità, bensì di cesello. Ecco perché a 82 anni ho ricomprato la casa editrice che nel frattempo era finita nella galassia Rizzoli. È stata ed è durissima, inutile nasconderlo. Ma sono fiera di quello che abbiamo fatto».
Lei ha incontrato editori leggendari.
«Il più grande di tutti secondo me era Livio Garzanti. Uomo duro, però pubblicava Parise e Pasolini, ma ci rendiamo conto? Oggi mi piace Antonio Franchini e, sempre della Bompiani, apprezzo la giovane Giulia Ichino».
Frequenta le altre signore dell’editoria?
«Sì, ma poco. Prendiamo Franca (nome di fantasia e tra poco si capirà perché, ndr): mi telefona e si lagna che non ci vediamo mai, ma ogni volta che vado a trovarla poi mi tocca pagare il tè con le paste al bar, che diamine».
È vero che scrive ancora le lettere a mano?
«Le mando ai miei nipoti, perché non sopporto gli sms o le altre diavolerie. Sa che in Australia ho un nipotino che non ho ancora conosciuto, nato da mio figlio che lavora lì? Se mi chiede quali sono oggi i miei desideri le rispondo che mi piacerebbe riprendere a muovermi, a viaggiare. Ogni tanto vado a Santa Margherita Ligure ma seduta sulla panchina sembro una pensionata, diomio. Non vedo l’ora che finisca questa emergenza sanitaria per riprendere la vita di prima».
Rosellina, lei sembra una donna brava a vivere e a godersi i momenti felici, è così?
«Sì, perché ho sempre fatto quello che ho voluto. Ho fatto scelte considerate scandalose, altre considerate visionarie, se non completamente pazze. Ma ho seguito la mia strada e io penso che la felicità sia proprio nella coscienza di aver fatto qualcosa che ci appartiene».
Molti pensano che lei sia ricca.
«Che sciocchezza. Per carità, sto bene, ma c’è tanta gente convinta che Leopoldo Pirelli alla sua morte mi abbia lasciato chissà che cosa. No, lui, giustamente, ha lasciato la casa ai figli, cosa di cui avevamo parlato a lungo e sulla quale eravamo pienamente d’accordo. A me ha lasciato solo quel quadro lì, lo vede? È un dipinto di Max Ernst».
Un po’ poco, mi permetta.
«Un po’ poco, sì, a ben pensarci».