1) L. Napoleoni, blog sul Fatto Quotidiano, 9 XII 2018
Gilet gialli, non solo Francia. La loro potrebbe diventare una protesta mondiale
Ancora una volta è la Francia a offrici la drammatica istantanea del mondo in cui viviamo. La rivoluzione francese è la madre dello Stato nazione moderno, quello democratico e laico, il ’68 francese la miccia che accese la rivolta studentesca e operaia contro il capitalismo post-bellico di stampo americano e i gilet gialli potrebbero diventare il grido di protesta mondiale contro una globalizzazione che ha spaccato intere nazioni, frantumandone la geografia politica, de facto ponendo fine alla struttura socio-economica delle democrazie occidentali post-belliche.
Come la Brexit e l’elezione di Donald Trump, i gilet gialli sono figli del trionfo dell’urbanizzazione occidentale, delle grandi città dove si muovono liberamente le elite mondiali. L’altra faccia della medaglia è la sconfitta delle campagne, della provincia dove un tempo erano ubicate le fabbriche. La geografia più della politica guida il movimento di protesta francese e anche quello della Brexit e del trumpismo. La maggior parte di chi fa parte di questi fenomeni, chi li sostiene e ci crede, è apolitico, non ha fiducia nella vecchia ideologia di destra o di sinistra, non la conosce neppure, e non si fida dei politici tradizionali che vede come i lacchè delle elite dell’urbanizzazione della globalizzazione.
In effetti Parigi, la città, chi ci vive, l’economia, anche la cultura, hanno più in comune con Londra, New York o San Francisco che con i paesini del nord est della Francia, dove nel dopoguerra si lavorava in miniera. Ma è anche vero che un filo conduttore di rabbia e protesta unisce gli ex operai delle fabbriche del Wisconsin ai contadini francesi e agli ex pescatori di Hull, nelle Midlands inglesi. Sono loro che hanno votato Trump sulla base di promesse fortemente protezioniste, loro che gridano a Macron “noi esistiamo” e ancora loro che hanno detto no a un’Unione Europea che permette ai pescherecci olandesi di pescare nelle acque territoriali del Regno di sua Maestà.
La globalizzazione ha voluto ridisegnare la geografia dello Stato nazione e così facendo ne ha escluso la base portante, il popolo, la classe media, quella ex operaia, i giovani, chiunque non faccia parte di quell’elite urbana fortunata che si è arricchita negli ultimi 40 anni. Ma la globalizzazione non ha cambiato la struttura politica portante del vecchio Stato nazione. Ed è qui il nocciolo del problema, la cacofonia tra economia globalizzata e politica nazionale. Prova ne è la caduta verticale di Macron, il presidente della speranza eletto dai francesi e oggi definito dai gilet gialli (ma non solo) “il presidente dei ricchi“.
In effetti la sua prima riforma fiscale è stata nettamente neoliberista. Nel suo primo budget ha sostituito la tassa sul patrimonio con un prelievo sulla proprietà, convinto che cosi facendo avrebbe incanalato i risparmi nella creazione o nell’espansione delle imprese. Ma non è stato così. I tagli alle tasse per le famiglie sono stati posticipati. E questo è stato un gravissimo errore. La Francia è il Paese più tassato del mondo industrializzato secondo l’Ocse, con un peso fiscale del 46,2% sul prodotto interno lordo. Ed ecco spiegato come ciò che è iniziato appena due mesi fa come una campagna online contro i crescenti costi del carburante si è trasformato in un movimento sociale a livello nazionale contro le tasse elevate, il declino degli standard di vita, un’élite politica egoista e un presidente ritenuto arrogante e fuori dal mondo.
Ma i problemi del mondo globalizzato e della classe politica che lo rappresenta non finiscono nelle strade della Francia, nei quartieri poveri del Wisconsin o sulle spiagge di Hull. Gli echi del riassetto sismico della geografia, il fracasso di un sistema politico mondiale che si reinventa sono arrivati a Wall Street. Il nervosismo dei mercati è tangibile e basta un twitter di Trump a scatenare il panico, infatti questa settimana tutti gli indici sono crollati per paura che gli equilibri economici e commerciali tra i vecchi e nuovi giganti dell’economia mondiale si sfascino. Come la struttura del sistema politico democratico non è mutata, così la psicologia della borsa è sempre la stessa, di fronte all’incertezza prevale l’istinto animale, quello della sopravvivenza. Un presidente come Macron, che può contare appena sull’appoggio di un quarto della popolazione, potrebbe ricevere il colpo di grazia proprio dal mondo finanziario da cui arriva. Paradossalmente potrebbe essere piazza affari a far calare su di lui la ghigliottina
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2) Alessandro Canella, Radio Città Fujiko, 7 XII 2018
Come interpretare il movimento francese dei gilet gialli
Il fenomeno spontaneo francese e la crisi della democrazia rappresentativa.
Scoppiato per il caro-carburante voluto dal governo, il movimento spontaneo francese dei gilet gialli è un fenomeno confuso e complesso. Leonardo Bianchi, giornalista di Vice, li paragona ai Forconi italiani. Il racconto da Parigi di Cosimo Lisi. La chiavi di lettura più efficaci potrebbero essere quelle di “periferia vs centro” e di rigetto delle disuguaglianze.
Una decina di giorni fa hanno fatto prepotentemente irruzione nelle cronache di mezzo mondo per le forme radicali di protesta che avevano messo in atto, con blocchi stradali e dei depositi petroliferi. Poi il carburante del movimento sembrava esaurirsi, fino all’arrivo a Parigi durante lo scorso week end e gli scontri e la guerriglia che hanno portato all’evacuazione degli Champs Elysées.
È il fenomeno dei “gilet jaunes“, i gilet gialli, come sono stati chiamati a causa delle pettorine catarifrangenti che indossano.
Di loro si sa che provengono da zone rurali della Francia e che protestano per il caro-benzina annunciato dal governo. Un aumento motivato in chiave ecologica, come misura di transizione per la riduzione dell’impatto sul clima.
Un altro elemento noto è la spontaneità del movimento. Anche se a posteriori l’estrema destra di Marine Le Pen ha tentato di sussumere la protesta, dandovi il proprio appoggio, le manifestazioni sono nate senza l’input di partiti, sindacati o associazioni.
Le rivendicazioni che i gilet gialli portano avanti hanno fatto sì che alcune delle letture che sono state date finora al fenomeno li abbia collocati nel semicerchio di destra della politica. L’opposizione a misure ecologiste, infatti, viene associata alle fazioni conservatrici e liberali, impostata su un’economia votata alle fonti fossili e poco attenta all’impatto sul pianeta. Per contro, alcuni manifestati hanno spiegato che muoversi in contesti periferici e rurali non è come farlo nella metropoli parigina, dove l’alternativa della metropolitana e dei mezzi pubblici è concreta.
Ci sono poi altri due elementi che restituiscono complessità alla composizione del movimento dei gilet gialli. Da un lato una “frangia” che si dichiara apertamente antirazzista e lo indica anche con un logo sulle stesse pettorine. Dall’altro, l’omaggio effettuato sabato scorso a Montpellier dagli stessi gilet gialli alla manifestazione in occasione della Giornata Mondiale contro la violenza alle donne.
In un articolo su Vice, il giornalista Leonardo Bianchi, autore del libro “La gente – Viaggio nell’Italia del risentimento“, equipara i gilet gialli al movimento dei forconi italiano. Ad assimilarli ci sono modalità organizzative simili, attraverso i social network, ma anche il linguaggio, fatto di meme artigianali e video-selfie di gente sconosciuta. Entrambi i movimenti, inoltre, sono nati fuori dal radar dei partiti politici ed esprimono il rifiuto totale della politica rappresentativa.
Tra la realtà italiana e quella francese, però, esistono anche alcune divergenze. “I gilet gialli stanno avendo più successo – spiega ai nostri microfoni Bianchi – e sembrano un movimento più eterogeneo, mentre in Italia i forconi erano sicuramente più a destra. L’essere una protesta più spontanea rende quella francese più suscettibile di infiltrazioni politiche, ma al tempo stesso è molto più imprevedibile. Inoltre è partita da una rivendicazione precisa, il no al caro-carburante, mentre il movimento italiano non aveva i contenuti più disparati”.
In ogni caso, i gilet gialli francesi inaugurano un nuovo modello di protesta sociale, il cui fascino sta proprio nell’imprevedibilità della direzione che potrà assumere. “È nata come una sorta di rivolta della piccola borghesia – sintetizza il giornalista – Ma è l’ennesimo sintomo che dimostra come la democrazia rappresentativa, quella fatta da corpi intermedi come partiti e sindacati, è in crisi acuta, forse terminale“.
Alla manifestazione di sabato scorso a Parigi ha partecipato anche Cosimo Lisi, attivista italiano che vive in Francia da anni ed ha seguito molte mobilitazioni, come quella contro la Loi Travail. Ai nostri microfoni l’attivista sottolinea l’impossibilità di leggere questo movimento con i canoni tradizionali, in particolare quello “destra-sinistra“. Nel movimento spontaneo sono presenti entrambe le componenti. “La sensazione è che la gente protesti contro le diseguaglianze prodotte dalla crisi e dalle politiche liberiste”, osserva Lisi.
Molto più utili potrebbero essere le dicotomie “periferia-centro” e “basso-alto“. L’attivista conferma che le manifestazioni non avevano una direzione. “L’unico obiettivo era riuscire ad arrivare negli Champs Elysées, che sono forse il quartiere più ricco d’Europa”. Trovatasi davanti la polizia a sbarrare la strada, la protesta ha assunto i toni di una sommossa, di un moto popolare.
“Ho parlato con ragazzi che sventolavano il tricolore francese, ma che erano di origine tunisina e si dicevano contro il razzismo”, racconta per dare l’idea della confusione e della complessità della composizione della protesta.
Ciò che ora è interessante capire, però, è quale possibile sbocco potrebbe avere il movimento. “Il rischio che vada a vantaggio dell’estrema destra è sempre dietro l’angolo – osserva Lisi – Molto dipenderà da se e come gli altri movimenti, quelli di sinistra, entreranno in dialogo con i gilet gialli”. In questo senso ci sono diversi tentativi, a partire dall’associazione francese antirazzista Rosa Parks, che nelle mobilitazioni dei prossimi giorni cercheranno di creare punti di contatto con i gilet gialli.
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3) Giacomo Petrella, Barbadillo, 5 XII 2018
Il populismo puro dei gilet gialli (oltre destra e sinistra): è la politica postnovecentesca
Alain De Benoist ha recentemente definito il movimento dei giubbotti gialli, populismo puro. Un fenomeno completamente non mediato, diretto, fondamentalmente antisistema. Insomma qualcosa che va oltre le dinamiche dialettiche fino ad oggi osservate elettoralmente e mediaticamente: non più popolo contro elite, quale schema inserito nelle istituzioni, ma rabbia antisistema. Non pochi hanno rivisto in queste giornate parigine alcune delle più belle pagine di Gilles, quando La Rochelle auspicava che il fuoco di Place de la Concorde unisse definitivamente nazionalisti e comunisti nella rivolta contro il sistema liberal-democratico. Ma al di là di pugni chiusi e croci celtiche apparse assieme sugli Champs Elysées, l’intuizione di De Benoist suggerisce un mutamento di schema importante.
Se, infatti, le grandi distorsioni della globalizzazione obbligheranno il populismo puro ad abbandonare ogni tentativo riformista, allora non solo le società europee vedranno il ritorno sulla scena dell’ambito politico, ma, inevitabilmente, le guide e le gerarchie di tale ritorno avranno il crisma di una rivoluzione conservatrice.
L’uscita dal sistema del consumo a usura, del pil dopato a iperfiscalità e debito, non potrà avere per leader dei semplici gestori del conflitto, ma veri capi di comunità, responsabili diretti delle scelte fatte da una società in conflitto con due secoli di storia.
Il populismo puro descritto da AdB rappresenta così un fenomeno prodromico non del cesarismo spengleriano, non del ritorno novecentesco delle grandi organizzazioni di massa, ma di una democrazia organica capace di politicizzare i grandi temi previsti dalla Nuova Destra: piccole patrie, decrescita, ecologia, comunitarismo.
È dunque evidente e ben spiegata quella sensazione di incertezza e tensione più culturale, meno politica o partitica, che attraversa l’Europa oggi; che rende gli schemi di potere sempre più fragili e i leader sempre più degradabili nel giro di pochi mesi.
Con maggiore chiarezza si intravedono tempi in cui ogni lettura tipicamente ottocentesca e novecentesca cederà il passo di fronte alla complessità della vita reale: il conflitto creato dal grande inganno ingegneristico, totalitario, del progetto globalista apre nuove vie al ritorno di una storia in divenire, dentro alla quale molto più del conveniente tornerà a decidere ciò che è giusto.