Luca Doninelli, Il Giornale, 24 V 2018
Il coraggio (senza speranza) di denudare l’animale-uomo
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Le bassezze del singolo e le tragedie familiari diventano simbolo di un Paese che, alla fine, è un teatro vuoto.
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Ci vorrà pure qualcuno che, alla morte di un gigante della cultura come Philip Roth, abbia il coraggio di non piangere, di non aggiungere lamentazioni, tipo «come faremo senza di lui», ai suoi lamenti, che furono di altro tenore.
Ci vorrà pure qualcuno che faccia a Philip Roth l’onore di dissentire quietamente, di non scappellarsi davanti a un cadavere che è ridiventato povero come tutti i cadaveri. È lo stesso onore che l’Accademia di Svezia gli ha tributato non assegnandogli il Nobel – che è molto più del Nobel, anche lasciando stare le recenti storie svedesi. Di Roth ho letto credo tutta l’opera narrativa, cercando ogni volta di amarlo senza riuscirvi del tutto. Grande apprezzamento, grande stima. Stavo per amarlo da ragazzo, quando lessi Il lamento di Portnoy, che con Pastorale americana è uno dei due pilastri della sua fortuna, almeno da noi.
Stavo per amarlo per il coraggio estremo (scrivere un libro come quello può farti perdere molte amicizie, molti amori) con il quale, senza altro schema narrativo che la propria solitudine, il protagonista riesce a mettere in scena la propria bassezza senza giustificarla ma senza giudicarla, con un realismo innocente e spudorato (come spesso appare proprio ciò che è innocente) che non ha paura dell’animale che c’è in lui e cerca – per l’animale più che per l’uomo – un’ultima salvezza, che appare alla fine, come ricalcando lo sconcertante versetto del Salmo 35: «Uomini e bestie tu salvi, o Signore». La celebre scena della masturbazione con la carne macellata ha avuto, questo lo so per certo, tanti imitatori tra i lettori del Lamento. Il percorso, o decorso, della narrativa di Roth non ha ottenuto, in quel grande terribile processo civile e penale che si chiama Romanzo, la stessa clemenza per l’uomo. Pastorale americana (1997), che forse non è il più bello ma è sicuramente il più famoso dei suoi romanzi, riletto di recente mi appare come una conferma, quasi inevitabile, di un altro grande romanzo, del tutto differente, La famiglia Moskat di Isaac Bashevis Singer, scritto mezzo secolo prima, che senza mezzi termini si chiude con le parole «la morte è il Messia, questa è la verità». L’ambizione di Pastorale americana è quella di riprodurre il modello (intimamente catastrofista, quasi un romanzo di formazione al contrario) del tipico Romanzo Familiare. Quando l’oggetto del romanzo è una famiglia, potete star certi che si parlerà del suo sfacelo (da I Buddenbrook a Le correzioni). Roth non si ferma alla tragedia familiare di Seymour Levov, il protagonista, ma allarga giustamente la visuale secondo cerchi concentrici che toccano l’intimo della sua persona, la sua famiglia, la comunità ebraica e infine tutta l’America, ebrea e non, che si riassume per intero nel destino di Levov, detto non a caso Lo Svedese, insomma un cittadino universale dell’America universale, democratica, tocquevilliana, whitmaniana, l’America del riscatto per tutti i giusti e i meritevoli di ogni lingua, popolo e nazione, fondata sull’illusione che i migliori, gli eletti, possano essere in qualche modo dispensati da un destino che è scritto nella carne di tutti. Posso immaginare quanto dolore sia stato necessario a Roth per scrivere questo romanzo così come i successivi, tra cui spicca La macchia umana, forse il mio preferito. Leggo ora, sul retro di copertina del libro, una frase che avevo cercato di dimenticare.
Parlando della traccia che un uomo lascia del suo passaggio sulla terra, si legge il triste elenco: «impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme». Parole eterogenee, che possono essere comprese in un unico elenco solo a patto che siano gli attributi non dell’uomo ma dell’animale innocente, che è impuro e soggetto all’errore allo stesso modo in cui sparge i propri escrementi e il proprio seme. Tutte cose che si fanno così, perché si fanno, ma senza un disegno generale, perché proprio il disegno è andato perduto. Chiamatelo democrazia, chiamatelo Messia, chiamatelo fortuna, la risposta è una sola: non c’è. Esistono scrittori che si slanciano come pazzi contro un destino già pronunciato, e possono contare solo sulla propria follia (come il meraviglioso Herzog del capolavoro di Saul Bellow) per non recedere da questa speranza ostinata che, alla fine, non sarà la logica matematica (di cui è fatto anche il Romanzo nella sua struttura inevitabile e infernale) a dire l’ultima parola, ma un dono improvviso, desiderato ma inimmaginabile. Perché il Romanzo è matematica ma è anche la sua negazione. In questa follia lo scrittore è sempre obbligato ad aprire strade nuove: magari fallimentari, ma nuove.
Altri scrittori impiegano un’esistenza di lavoro per tirare, con disperato rigore, l’ultima riga in fondo alla somma della vita umana, e per dimostrarci, senza nessuna gioia, che il risultato è zero, e che speranze affetti progetti non sono che uno scenario caduto il quale il teatro rimane vuoto e nudo. Se, poi, questo nasconda una bestemmia o una segreta preghiera, io non so. Roth appartiene a questa schiera, a questo cammino sul quale altri l’hanno preceduto, perché in questo cammino solitario non si può non essere preceduti. Distrugge l’affresco del mondo facendo un altro affresco, tragico ma sempre affresco. Io credo però – e domando scusa – che la tragedia vera sia quella che devasta ogni possibile affresco, rappresentazione, perché sono persuaso che nell’idea stessa di «rappresentare» il mondo si celi il fallimento. L’immagine è il fallimento.
Forse per questo, pur ammirandoti, caro Philip ora restituito alla terra senza Nobel o altri adminicula, non sono riuscito ad amarti. Ma ci rivedremo.