Repubblica Economia, 1 VIII 2017
Lavoro, tre italiani su quattro non credono più nel “posto fisso”
Secondo un’indagine Randstad, il 74% dei lavoratori lo ritiene ormai un miraggio. Percentuale simile al resto del mondo, l’Europa del Sud in media soffre maggiormente. Il 59% disposto a emigrare per la professione.
MILANO – I dati pubblicati ieri dall’Istat parlano chiaramente: dopo la sbornia legata agli sgravi contributivi, che hanno dato un impulso negli anni passati alle assunzioni stabili, il motore della ripresa occupazionale è sbilanciato verso i contratti a termine. E gli italiani sembrano avere ormai acquisito nella loro mentalità il concetto dell’addio al posto fisso: tre su quattro non credono più in quest possibilità, un tempo istituzione sacra nel mondo lavorativo della Penisola.
Il dato arriva dal Randstad Workmonitor, indagine trimestrale condotta dal colosso delle risorse umane in 33 Paesi su un campione di 400 lavoratori ciascuno. Ebbene, spiega il rapporto, “tre lavoratori su quattro (il 74%), si sono ormai rassegnati all’idea che una carriera lineare portata avanti per tutta la vita lavorativa all’interno della stessa azienda o istituzione non esista più. La provvisorietà del posto di lavoro è avvertita maggiormente dalle donne (77% contro il 70% degli uomini) e dai lavoratori più maturi (76% dei dipendenti nella fascia 45-67 anni, contro il 72% degli occupati fra i 18 e i 44 anni) e spinge gli italiani a investire nella formazione continua per restare competitivi nel mercato del lavoro (91%), ad accettare una riduzione di stipendio pur di mantenere il posto (44%), o a prendere in considerazione l’idea di emigrare (59%) o di trasferirsi temporaneamente all’estero (60%) per trovare un impiego non disponibile in Italia”.
Secondo Marco Ceresa, ad di Randstad Italia, gli italiani hanno ormai familiarizzato con l’instabilitò: “Diverse sono le strategie messe in atto dai dipendenti per rispondere alle sfide della flessibilità: sono fra i primi nel cercare una risposta di tipo propositivo. Dalla ricerca emerge, infatti, che ci sono lavoratori più combattivi che sentono di aver bisogno di una formazione continua e cercano di migliorare costantemente la propria competitività (il 91%, contro l’86% della media globale) e altri (il 59%) che sono disposti ad uscire dalla loro zona di comfort ed emigrare per trovare un lavoro non disponibile in Italia. Un segnale culturale e sociale sicuramente importante che vede i nostri lavoratori adottare un approccio più reattivo che contrasta l’accettazione dell’instabilità del mercato, comunque, rilevata da una parte del campione”.
La posizione italiana, a ben vedere, non è molto distante dalla media mondiale che vede il 73% dei lavoratori che ormai hanno celebrato il funerale del posto fisso. La sensazione di instabilità è molto più accentuata nell’Europa meridionale, mentre i lavoratori dei paesi del dell’Europa centro-settentrionale si sentono mediamente più garantiti. In particolare, i dipendenti di Portogallo (86%), Grecia (82%), Francia (80%) e Spagna (77%) sono più rassegnati degli italiani alla scomparsa del posto fisso, mentre gli occupati di Germania (71%), Svezia (67%), Danimarca (66%), Norvegia (62%) e Lussemburgo (53%) hanno molta più fiducia nella possibilità di lavorare a lungo nella stessa impresa.
I lavoratori svedesi sono i più sicuri delle loro capacità, e rispetto all’Italia soltanto la Spagna mostra una maggiore propensione a cercare fortuna all’estero (64% e 60%). Tuttavia, non tutti gli italiani rispondono in modo combattivo alle sfide poste dalla flessibilità lavorativa. Alcuni lavoratori preferiscono mettere in pratica strategie di ripiegamento, accettando accordi al ribasso pur di mantenere il posto di lavoro. L’85% dei lavoratori, ad esempio, accetterebbe un contratto a termine pur di non restare disoccupato, contro una media globale dell’80%, e ben il 44% sarebbe pronto a ridursi lo stipendio o ad accettare un demansionamento per non perdere l’impiego, contro una media globale pari al 42%.