Carlo Valentini, Italia Oggi, 9 V 2018
Mancano 2,5 milioni di dipendenti pubblici
Secondo l’Adapt (fondata da Marco Biagi) la pubblica amministrazione è troppo carente. Se ci adeguassimo agli standard europei avremmo il tasso d’occupazione migliore in tutto il continente.
Sorpresa. I pubblici dipendenti sono troppo pochi. A sostenerlo non è (come al solito) il sindacato ma l’Adapt, ovvero l’Associazione per gli studi sul lavoro e le relazioni industriali, strettamente collegata all’università di Modena-Reggio Emilia e ad altri atenei e fondata da Marco Biagi, il giuslavorista ucciso dalla Brigate Rosse perché stava lavorando quale consulente di Roberto Maroni (a quel tempo, 2001-2002, ministro del Welfare) alla riforma della legislazione sul lavoro, con l’obiettivo di promuoverne la flessibilità.
L’autorevolezza della fonte (e la meticolosità dei dati raccolti) rendono importante il dossier, destinato a fare discutere. Sostiene l’equipe di Adapt (Maria Luisa Bianco, Bruno Contini, Nicola Negri, Guido Ortona, Francesco Scacciati, Pietro Terna, Dario Togati), tutti docenti delle università del Piemonte Orientale e di Torino: «Continuare a ignorare la necessità di una massiccia espansione dell’occupazione nel settore pubblico sta diventando sempre più pericoloso. La soluzione di alcuni problemi, enormi, che molto dipendono da questa carenza (anche se ovviamente non del tutto) diventa ogni giorno più difficile. Ci riferiamo allacarenza di domanda interna,alla disoccupazione giovanile e all’inefficienza della pubblica amministrazione».
La ricerca indica che in Italia gli occupati nella pubblica amministrazione sono 3.055.000, 48.9 per mille abitanti. Il nostro Paesi si ritrova all’ultimo posto nella classifica europea, capeggiata dalla Svezia (141,1 occupati nella pubblica amministrazione ogni mille abitanti) e seguita da Francia (83,2), Inghilterra (78), Spagna (60,5), Grecia (56,5), Germania (52,5). L’Italia è inoltre al penultimo posto nella percentuale (13,6) dei dipendenti della pubblica amministrazione rispetto al totale degli occupati. Solo la Germania ha un valore inferiore (10,6) mentre il gruppo degli altri Paesi registra il 28,6 della Svezia, il 21,4 della Francia, il 18 della Grecia, il 16,4 dell’Inghilterra, il 15,7 della Spagna.
Commentano gli autori: “Se nella pubblica amministrazione ci fossero i circa 2.500.000 addetti che ci mancano per raggiungere le percentuali di Francia e Regno Unito il nostro tasso di occupazione passerebbe dal 62.3% (il penultimo in Europa) al 69%”.
In sostanza: la minore occupazione dell’Italia non dipende dalle caratteristiche del mercato del lavoro privato ma dal sottodimensionamento della produzione di servizi pubblici. Recuperare il ritardo occupazionale operando sul solo settore privato appare difficilmente praticabile se non utopistico. Sarebbe necessario infatti un livello di liberismo economico del tutto anomalo per un’economia di mercato sviluppata e che dovrebbe operare in presenza di un’amministrazione assolutamente inadeguata».
Se la Francia avesse le nostre (carenti) percentuali di lavoro pubblico il suo tasso di disoccupazione passerebbe dal 10,1% al 21,8%, la Germania dal 4,1% al 14,6%, l’Inghilterra dal 4,8% al 18,5%. L’Italia, con l’11,7%, si ritroverebbe la prima della classe. Incredibile ma vero, secondo gli esperti Adapt, che sono pessimisti sulla razionalizzazione della pubblica amministrazione senza l’inserimento di nuove professionalità: «Non è che si possa fare molta strada spostando coloro che già vi lavorano. Non va dimenticato che l’età media dei pubblici dipendenti italiani è eccezionalmente alta, e la loro scolarità molto bassa, per quanto si sposti o si investa nella formazione difficilmente un impiegato cinquantenne con un diploma di scuola media superiore potrà svolgere le stesse mansioni di un esperto informatico venticinquenne e laureato. La razionalizzazione dell’uso degli addetti attuali e le decisioni sul loro aumento devono andare di pari passo. Nulla impedisce, se non una politica sbagliata, che si comincino a fare delle assunzioni là dove fin d’ora è evidente, o facilmente accertabile, che sono necessarie».
Qual è la geografia dell’occupazione nei settori tipicamente pubblici, aggiungendo che sono compresi anche lavoratori con contratti privati (pensiamo, per esempio, alle multiutility)? Al primo posto vi è la sanità (1.796.000 addetti), seguono la scuola e l’educazione (1.509.000), gli uffici della pubblica amministrazione e della difesa (1.293.000), l’acqua, rifiuti e fognature (238.000), il gas e l’elettricità (114.000).
«L’Italia», dicono Maria Luisa Bianco & Co, «ha la più bassa percentuale di laureati fra i Paesi europei e al tempo stesso la seconda più alta percentuale di laureati disoccupati. La spiegazione di questo apparente paradosso non può che essere il sottodimensionamento del settore pubblico, che in un’economia sviluppata è uno dei principali datori di lavoro per laureati. Vi è da aggiungere che i laureati italiani si laureano nelle materie sbagliate».
Quindi, suggeriscono gli esperti, non si può modernizzare il Paese senza un intervento sulla pubblica amministrazione che non può ridursi alla razionalizzazione dell’esistente ma deve prevedere un suo ridisegno complessivo con l’assunzione di figure professionali con adeguati titoli di studio. Ecco la ricetta: «Si deve pensare ad almeno un milione di assunzioni. I candidati vanno valutati, in concorrenza fra di loro, da un organismo tecnico e apolitico sulla base della loro rispondenza a una serie di obbiettivi come il miglioramento del servizio o l’effetto espansivo sulla produzione privata».
Come finanziare questo piano di assunzioni? «La nostra proposta», è la conclusione del dossier,«è che si ricorra a una imposta patrimoniale straordinaria sulla ricchezza finanziaria delle famiglie (e quindi non su quella immobiliare) che nel 2017 ha raggiunto i 4.200 miliardi. Supponendo una retribuzione pari a quella di ingresso di un insegnante laureato sarebbe sufficiente un’aliquota media di circa il 5 per mille per assumere 1 milione di nuovi addetti, anche se sarebbe meglio ammettere una quota esente (di almeno 100 mila euro) e adottare aliquote progressive, comunque non superiori all’1%. Secondo una recente ricerca che ha coinvolto gli ultra 45enni il 79,9% è favorevole alla proposta. Questo risultato non deve stupire: il problema della disoccupazione giovanile è universalmente sentito, e il contributo richiesto è molto basso».