Rosaria Amato, Repubblica, 2 XII 2016
Censis, l’Italia bloccata non investe più.
Giovani più poveri dei loro nonni
Il cinquantesimo Rapporto Annuale parla di un Paese che siede su una montagna di risparmi, 114 miliardi di euro di liquidità aggiuntiva accumulati negli anni della crisi, ma non li spende per paura. E’ l’Italia rentier, dove i giovani sono sempre più poveri e intrappolati nel giro infernale dei lavoretti a basso costo e bassa produttività. Si taglia su tutto ma è boom degli acquisti di computer e soprattutto di smartphone.
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Un’Italia involuta, ripiegata su se stessa, “rentier” la definisce il Censis nel Cinquantesimo Rapporto sulla situazione del Paese. Un Paese che più che vivere di rendita però sopravvive, sfruttando fino all’osso le ricchezze del passato, in particolare il patrimonio immmobiliare, finalmente “messo a reddito”, ma che non osa più scommettere sul futuro. Dal 2007 a oggi gli italiani hanno accumulato 114 miliardi di euro di liquidità aggiuntiva, un gigantesco patrimonio che equivale al Pil dell’Ungheria e che rimane rigorosamente liquido, pronto a essere usato in una prospettiva futura di tempi ancora più bui, investito davvero in minima parte e sostanzialmente nelle mani degli anziani. Perché nel nostro Paese, ricorda il direttore generale del Censis Massimiliano Valerii, si è dato corso a “un inedito e perverso gioco intertemporale di trasferimento di risorse che ha letteralmente messo k.o. i Millennials”.
Se l’Italia appare ferma, governata da una classe politica che ha rinunciato da tempo al ruolo di intermediario dei bisogni della società e che, dice il presidente del Censis Giuseppe De Rita, “pensa solo a se stessa, alla possibilità di far primato”, gli italiani in realtà si muovono, in una scia di “continuità di cui nessuno si accorge ma che ha una forza incredibile”. Per cui non c’è ripresa ma il made in Italy va bene, le esportazioni funzionano, la filiera enogastronomica è apprezzata ovunque, “tre quarti dei macchinari nel mondo sono italiani”.
La ricchezza ferma. In Italia gli anziani hanno il patrimonio immobiliare e i risparmi di una vita che nei tempi buoni si sono moltiplicati grazie ad investimenti azzeccati, i giovani non hanno pressoché nulla: le famiglie con persone di riferimento che hanno meno di 35 anni hanno un reddito più basso del 15,1% rispetto alla media della popolazione e una ricchezza inferiore del 41,1%. Mentre la ricchezza degli anziani è superiore dell’84,7% rispetto ai livelli del ’91. Ma non serve a rimettere in moto il Paese: l’incidenza degli investimenti sul Pil è scesa al 16,6% nel 2015, contro una media europea del 19,5% ma soprattutto il 21,5% della Francia e il 19,9% della Germania e anche il 19,7% della Spagna.
La trappola dei “lavoretti”. E’ l’Italia del post-terziario, del sommerso. Non è più però il sommerso degli anni ’70, che nascondeva aree di grande produttività, di sviluppo: questo è un sommerso “post terziario”, più statico che evolutivo, “una macchina molecolare” di soggetti che vagano ognuno per proprio conto, senza alcun orientamento. E’ il sommerso del danaro messo da parte ma non investito, dei “lavoretti” a bassa produttività che incidono poco o pochissimo sulla crescita del Paese. A fronte di 431.000 lavoratori in più infatti tra il primo trimestre del 2015 e il secondo del 2016 il Pil è aumentato di 3,9 miliardi di euro, lo 0,9% in più. Se la produttività, già bassa, fosse rimasta costante, ragiona il Censis, la nuova occupazione si sarebbe dovuta tradurre in una crescita dell’1,8%. E’ la condanna dei Millennials, imprigionati tra “l’area delle professioni non qualificate” e “il mercato dei lavoretti”, nel complesso “il limbo del lavoro quasi regolare”.
La fine del lavoro e del ceto medio. Il problema non è solo dei giovani: in generale diminuiscono le “figure intermedie esecutive” e crescono le professioni non qualificate (più 9,6% tra il 2011 e il 2015) e gli addetti alle vendite e ai servizi personali (più 7,5%). Si riduce anche il numero di operai, artigiani, agricoltori, il lavoro costa meno ma questa riduzione non favorisce la domanda, anche per via della crisi del settore pubblico: la deflazione è figlia anche di questo sistema del massimo ribasso, che ha compresso e impoverito la classe media.
Tagliare ancora le spese. La parola d’ordine dunque è spendere il meno possibile, ridurre ancora i consumi, e tenere i soldi a portata di mano: il 51,7% conta di tagliare ulteriormente le spese per la casa e l’alimentazione. In questo rapporto Censis che sembra non offrire neanche un minimo appiglio per guardare al futuro con un po’ di fiducia, a differenza delle precedenti edizioni, emergono comunque ancora i dati di un’Italia che continua a produrre e a muoversi, in ordine sparso, senza alcuna coordinazione da parte di una guida politica magari forte, ma sempre più autoreferenziale. Scure anche sulla sanità, su cui pesa anche il ritiro del sistema pubblico: “Gli effetti socialmente regressivi delle manovre di contenimento del governo si traducono in un crescente numero di italiani (11 milioni circa) che nel 2016 hanno dichiarato di aver dovuto rinunciare o rinviare alcune prestazioni sanitarie, specialmente odontoiatriche, specialistiche e diagnostiche”.
Cosa tira ancora: il turismo e l’export. In primo luogo continuano ad andare benissimo le aziende che si sono ritagliate una fetta di mercato, piccola o grande, con le vendite all’estero. L’Italia resta al decimo posto nella graduatoria mondiale degli esportatori con una quota di mercato del 2,8%. Nel 2015 le aziende esportatrici italiane hanno superato il 5% dell’export mondiale in 28 categorie di attività economiche. Il saldo commerciale del made in Italy è stato di 98,6 miliardi di euro, superiore al fatturato del manifatturiero. La fama che accompagna i nostri prodotti di qualità è quella del “bello e ben fatto”. Ed è probabilmente proprio questo a spingere i turisti stranieri di “alta gamma” a venire in Italia: tra il 2008 e il 2015 gli arrivi di visitatori stranieri in Italia sono aumentati del 31,2% e i giorni di permanenza sono aumentati del 18,8%. Gli arrivi negli hotel a 5 stelle sono cresciuti dal 2008 del 50,3% e in quelli a 4 stelle del 38,2%. Il crollo delle categorie inferiori è compensato da un forte aumento delle presenze negli alloggi in affitto, nei bed and breakfast e negli agriturismo.
Per cosa si spende: i media digitali. Accanto a queste attività economiche che godono ancora di una forte spinta propulsiva, c’è un unico canale di consumi che sembra convogliare la passione per gli acquisti degli italiani: la comunicazione digitale. Mentre tra il 2007 e il 2015 i consumi in generale si riducevano del 5,7%, gli acquisti di smartphone aumentavano del 191,6% e quelli di computer del 41,4%. “Gli italiani hanno stretto i cordoni della borsa evitando di spendere su tutto – è la spiegazione del Censis – ma non sui media digitali connessi in rete, perché grazie ad essi hanno aumentato il loro potere individuale di disintermediazione”. L’utenza del web in Italia nel 2016 è arrivata al 73,7%, mentre il 64,8% usa uno smartphonee il 61,3% Whattsapp (la percentuale dei giovani sale all’89,4%).
Sim web superano Sim voce. Per la prima volta, nel 2015 il numero di sim abilitatein Italia alla navigazione in Rete (50.2 milioni) ha superato quello delle sim utilizzate esclusivamente per i servizi voce (42,3 milioni). E i volumi di traffico dati sono aumentati nel 2015 del 45% rispetto all’anno precedente, mentre i ricavi degli opeatori dei servizi crescevano del 6,2%.