Valentina Iorio, Corriere della Sera, 21 III 2021
L’economia dopo il Covid non tornerà più come prima: le 7 cose che cambieranno
La pandemia ha penalizzato alcuni settori più di altri. Ciò ha determinato forti asimmetrie che potrebbero protrarsi nel tempo ed ha accelerato una serie di trasformazioni, dallo smart working all’automazione dei processi produttivi.
*
L’effetto acceleratore della pandemia
La pandemia di Covid-19 ha spinto l’economia globale nella peggiore recessione dopo la Seconda guerra mondiale. Lo sviluppo dei vaccini e le politiche di sostegno favoriranno la ripresa, che però sarà a velocità diverse. Il coronavirus, infatti, non ha colpito allo stesso modo tutti i Paesi e anche le risposte alla crisi sono differenti. «La pandemia tra dieci anni probabilmente sarà vista come un acceleratore di un cambiamento che era già in atto. Però l’accelerazione c’è stata e la vedremo», afferma Vincenzo Galasso, professore ordinario di economia politica all’Università Bocconi di Milano.
Il vaccino aprirà la strada alla ripresa, che in alcuni casi potrebbe essere persino più forte che nel periodo pre-Covid. Tuttavia alcune trasformazioni, dallo smart working all’aumento dell’automazione, sono destinate a durare nel tempo. Le disuguaglianze, acuite dalla pandemia, diventeranno più evidenti nel lungo periodo. Inoltre c’è il rischio che la politica monetaria espansiva, indispensabile per superare la crisi, favorisca la sopravvivenza di imprese zombie. “Bisogna sostenere i lavoratori ma non si possono sostenere tutte le imprese – dice in proposito Elena Carletti, professoressa ordinaria di finanza all’Università Bocconi – È proprio un cambio epocale di natura imprenditoriale quello che si dovrà fare“.
L’esplosione del debito pubblico
Alla fine del 2020 il debito globale è schizzato a 281 mila miliardi di dollari (circa 235 mila miliardi di euro), ovvero il 355% del Pil mondiale. Per far fronte alla pandemia governi, imprese e famiglie hanno accumulato debiti per 24 mila miliardi di dollari, secondo le stime dell’Institute of International Finance (Iif) di Washington.
Il debito pubblico dell’Italia è salito dal 134,6% del Pil nel 2019 al 157,5% nel 2020 e ora viaggia su valori vicini al 160%. Una volta superata l’emergenza, gli acquisti della Bce dovranno ridursi. A quel punto per rendere sostenibile il debito l’economia dovrà tornare a crescere.
«Il problema della sostenibilità del debito pubblico rimane, però è cambiato il mondo. Siamo in una crisi che è completamente diversa dalla precedente. C’è anche molta più volontà da parte della Bce e della Commissione di aiutare i Paesi indebitati e questo è un segnale importante per i mercati», sottolinea la professoressa Carletti. «Inoltre i tassi di interessi continuano a essere molto bassi. Però se dovessero riaumentare, il problema si porrebbe in maniera più preponderante».
Il debito societario e le moratorie
La pandemia ha fatto aumentare esponenzialmente anche i debiti societari. Le risorse mobilitate da governi e banche centrali in tutto il mondo hanno contribuito a mantenere la situazione sotto controllo. «Tuttavia la situazione delle imprese va monitorata, soprattutto in Italia – dice la professoressa Carletti – . Anche perché le imprese sono chiamate a fare dei cambiamenti, sia per la situazione che stiamo vivendo sia perché il Recovery Plan li richiede. Per farli però servono soldi per investire».
Il dato confortante, sottolinea la docente di Finanza della Bocconi, è che in Paesi come la Germania, dove le moratorie sono terminate, non ci sono stati grandi innalzamenti di insolvenze. Però bisogna vedere cosa succederà in Italia e in Francia, altro Paese fortemente indebitato a livello di imprese.
Prolungare eccessivamente le moratorie potrebbe favorire comportamenti opportunistici da parte dei debitori o aumentare il rischio di un effetto valanga quando dovessero cessare. Però anche ritirarle troppo presto sarebbe rischioso. «Sarei meno preoccupata di sostenere le aziende un po’ di più e più preoccupata di ritirare troppo presto le misure di sostegno, perché le imprese ne hanno ancora bisogno – spiega – In particolar modo in Paesi come l’Italia, le cui economie si basano su settori, come il turismo, che sono molto colpiti dalla crisi».
Le asimmetrie fra i settori
Il Covid-19 ha stravolto l’economia, ma non tutti sono stati colpiti allo stesso modo. «Questa crisi è stata uno shock settoriale, a differenza delle precedenti. Quindi alcuni settori, come il turismo, sono stati colpiti indipendentemente dalla produttività delle imprese», spiega il professor Galasso. «Questo è molto problematico dal punto di vista degli aiuti che sono settoriali e quindi non consentono di discernere tra aziende che erano già sul bordo del fallimento e aziende che invece andavano bene».
I servizi essenziali o quelli erogabili online hanno risentito meno della crisi; settori non essenziali come gli hotel, l’intrattenimento di massa o il turismo, invece, hanno visto crollare le loro entrate. Ma anche le vendite al dettaglio o l’industria dell’abbigliamento sono state fortemente penalizzate.
«Quest’estate siamo tornati a un turismo anni ’70 e per un po’ sarà così. Questo però prima o poi passerà. Ci sono altre cose che invece potrebbero cambiare strutturalmente – prosegue Galasso – . Ad esempio l’abitudine di andare a trovare un cliente dall’altra parte del mondo o di spostarsi per due giorni per un meeting, prendendo voli internazionali. Quello è un indotto importante per un certo tipo di settore».
«In settori come il turismo non so come si possano immaginare radicali trasformazioni rispetto al pre-Covid – aggiunge la professoressa Carletti – . Le riconversioni sono limitate in alcuni campi. Se vogliamo tenere in vita determinati settori, non possiamo rischiare di togliere il sostegno pubblico alle imprese troppo presto».
Due scenari possibili
Uno studio dello Us Bureau of Labor Statistics, ripreso da Lavoce.info, ha cercato di individuare quali saranno i settori che dovranno affrontare cambiamenti di lungo periodo, se non permanenti. Secondo l’analisi, in uno scenario «moderato», nel quale l’aumento dello smart working è la causa trainante del cambiamento, il bisogno di spazio per gli uffici diminuirebbe, facendo crollare la domanda dell’edilizia non residenziale. Diminuirebbero gli spostamenti e con essi i costi del pendolarismo, dei viaggi d’affari e la spesa per i ristoranti in pausa pranzo.
Allo stesso tempo però l’aumento del telelavoro guiderebbe la domanda di tecnologie informatiche e le occupazioni ad esse legate. E aumenterebbe la domanda per una maggiore prevenzione delle malattie infettive.
Se lo shock dovesse essere più forte e duraturo, a questi cambiamenti si aggiungerebbe un’ulteriore contrazione della domanda per i ristoranti, i viaggi e gli alloggi e in generale per i settori che dipendono dai grandi raduni, come eventi sportivi e spettacolo dal vivo.
Più automazione
Un altro degli effetti della pandemia è l’aumento della digitalizzazione, sia sul fronte dello smart working e della didattica a distanza che su quello degli acquisti. «Quello che sta succedendo ci porterà verso una maggiore automazione perché abbiamo tutti iniziato a usare di più il digitale. La pandemia ci ha fatto perdere molte remore su questo fronte», osserva il professor Galasso. «L’automazione però è diventata una fonte di grande disuguaglianza. Rischia di distruggere posti di lavoro senza ricrearne tanti altri, ma soprattutto senza creare posti di lavoro buoni».
Il rischio è che si rafforzi la polarizzazione tra chi ha lavori ben pagati e chi farà lavori meno retribuiti e più pesanti. Come ha rilevato uno studio condotto nel 2020 dal docente di economia politica della Bocconi insieme a Martial Foucault, di Sciences Po (Parigi), le fasce meno istruite del mercato del lavoro hanno pagato un prezzo molto più alto durante il lockdown. «Il divide tra laureati e non laureati – spiega Galasso – è cresciuto moltissimo durante la pandemia, in tutti i Paesi presi in considerazione dal nostro studio».
Smart working
Il coronavirus ha costretto la maggior parte delle aziende e dei lavoratori a misurarsi con lo smart working. Per molti lavoratori si tratta di una soluzione temporanea ed è probabile che, una volta superata l’emergenza, rientreranno in ufficio. Tuttavia alcune aziende iniziano a vedere il lavoro agile come un cambiamento strutturale, almeno per una parte dei loro dipendenti.
«Questo in una prospettiva futura potrebbe ampliare il mercato del lavoro, perché a quel punto non sarà più indispensabile assumere una persona che vive dove ha sede l’azienda o nelle immediate vicinanze», sottolinea Vincenzo Galasso. Le grandi imprese di informatica lo fanno già e col tempo questa prassi potrebbe diffondersi anche per altre tipologie di lavoro.
Il vantaggio potrebbe essere quello di riuscire a frenare la cosiddetta fuga dei cervelli come nel caso del South working, ovvero lo smart working dal Mezzogiorno per le aziende del Centro-Nord.
La dualizzazione del mercato del lavoro
Nel mercato del lavoro la pandemia ha acuito la frattura tra insider e outsider. «Lavorando in smart working chi aveva già un network ben delineato è stato avvantaggiato. Se io sono una persona giovane che non ha molti contatti o sono una start up che sta cercando di sviluppare un’idea è chiaro che sono tagliato fuori», spiega il professor Galasso.
In questa polarizzazione gli outsider tendono a corrispondere a persone giovani, di sesso femminile e con contratti di lavoro atipici, mentre gli insider sono spesso uomini, adulti e con situazioni contrattuali stabili. «Chi è entrato nel mercato del lavoro durante la pandemia – aggiunge – soffrirà anche in futuro della mancanza di questi contatti e questo vale anche per la nascita di nuove imprese. In questo i giovani sono stati molto penalizzati».