Raffaella Giancristofaro, Mymovies, settembre 2016
73a RASSEGNA CINEMATOGRAFICA DI VENEZIA
“SPIRA MIRABILIS” – FILM CONCETTUALE, CONTEMPLATIVO, ERMETICO: UNA RIFLESSIONE STIMOLANTE SUL SENSO DELLA PERMANENZA UMANA NEL MONDO.
La comunità dei Cheyenne River Reservation Camp, in South Dakota, celebra il funerale di un anziano che ha lottato per l’indipendenza e il riconoscimento dei diritti civili dei nativi americani. Restauratori e tecnici addetti alla conservazione delle statue del Duomo si applicano costantemente a dare nuova vita a quel simbolo di spiritualità cristiana che permane intatto nei secoli. La coppia svizzera composta da Felix Rohner e Sabina Schafer crea da decenni particolari strumenti musicali con pazienza artigiana nel laboratorio di Berna. Shin Kubota, docente all’Università di Tokyo, si dedica a studiare la Turritopsis, “medusa immortale”, dal ciclo vitale potenzialmente infinito, capace di mutamento e rigenerazione. Di tanto in tanto, dentro un cinema vuoto, l’attrice Marina Vlady interpreta alcuni passi dell’Immortale, dall’Aleph di Jorge Luis Borges.
Queste le coordinate di Spira mirabilis, sesto lavoro del duo di documentaristi Massimo D’Anolfi e Martina Parenti (collaborazione iniziata nel 2007 con I promessi sposi e proseguita tra i festival internazionali più ricercati, tra cui Toronto, Nyon, Locarno, Torino, con Grandi speranze, Il castello, Materia oscura e L’infinita fabbrica del Duomo, ai materiali del quale si attinge anche qui). I quattro set richiamano gli elementi naturali: rispettivamente, fuoco, terra, aria, acqua (più l’extra testo borgesiano, a fare da vademecum paradossale: “ho dialogato con filosofi che dicevano che prolungare la vita degli uomini è come prolungarne l’agonia“). Spirale meravigliosa descritta dallo scienziato svizzero seicentesco Jakob Bernoulli, Spira mirabilis è titolo che con perfetta e ambiziosa sintesi indica la tensione umana costante e laboriosa verso l’infinito, l’immortalità, tra un neo umanesimo dichiarato nelle note di regia e un panteismo (“tutto quel che ci circonda ci riguarda”, ricorda un nativo americano).
Concettuale, contemplativo, ermetico, il film scaturisce dalle idee di invecchiamento e rigenerazione, particolare e universale, micro e macro, convesso e concavo, in una riflessione stimolante sul senso del tempo e quindi della permanenza umana nel mondo. Le riprese in camera fissa (o eccezionalmente ancorata a qualcosa di meccanico che si muove, come un’auto o un carrello) testimoniano ogni trasformazione – dalle fasi di un restauro a un temporale, dall’analisi al microscopio a una nevicata con rigore e armonico senso della proporzione. E sono accostate per bastare a loro stesse, in un intenzionale, orgoglioso rifiuto del parlato, di voice over o didascalie esplicative, a parte i filmati d’archivio in pellicola sulle riserve indiane o il liberatorio, anche se tardivo, exploit dello scienziato giapponese in chiusura di film. L’assenza di parole intende lasciare il campo a un editing sonoro accurato, potente, a cura del musicista Massimo Mariani, collaboratore fisso della coppia di registi, che, tra i suoni metallici e percussivi delle diverse attività mostrate, ricrea atmosfere lattiginose, primordiali, sospese, di continua (ri)nascita.
Sono scelte elitarie, di pura astrazione, apprezzabili, che si prendono il rischio di alienare lo spettatore, in assenza di punti di riferimento certi a cui ancorare la visione, più presenti nelle intenzioni programmatiche che immediatamente veicolati sullo schermo; a tal proposito viene anche da domandarsi se una collocazione nella sezione Orizzonti, più sperimentale e anticonvenzionale, non sarebbe stata preferibile al Concorso di Venezia 73. O forse lo spaesamento è anche quello una forzatura intenzionale, il principio individuato da D’Anolfi e Parenti per enfatizzare l’incapacità, la finitezza umana di fronte al tutto, e quindi accompagnare chi guarda alla ricerca di senso e di bellezza. Del resto Spira Mirabilis, per usare uno stilema critico abusato, è davvero oggetto alieno, non identificabile, nel contesto del concorso di Venezia 73: ne mette addirittura in scena una replica, quando insiste sulle varie fasi di realizzazione di quegli strumenti, vicini allo steel pan, che sembrano astronavi, si chiamano hang e gubal e producono suoni potenti, ineludibili, fuori dal tempo.