Paolo Guzzanti, Il Riformista, 6 III 2020
Storia dell’Asiatica, l’influenza che uccise i giovani
Si crepava parecchio con l’Asiatica, un’influenza feroce che arrivò nel 1957 e che poi si ritirò, tornò a ondate e dopo una lunga immersione ebbe un sobbalzo nel 1969, ribattezzata col nome di Spaziale, visto che la Luna era appena stata conquistata, ma anche influenza di Hong Kong, per dire da dove veniva. Era, quello, un mondo più arcaico che antico e oggi occorrerebbe un documentario in bianco e nero per ricostruire in un grande set quell’atmosfera. Non c’era informazione. Si sapeva però che “quando Mao starnutisce l’Europa si ammala”. Mao, lo dico per i più giovani era il mitico presidente rivoluzionario cinese di cui mezzo mondo era pazzo, tanto che a quei tempi molti andavano in giro fingendo di leggere il suo “libretto rosso” contenente massime indecifrabili o di sconcertante banalità. Si crepava, dunque. Più di ventimila ci lasciarono la pelle con la prima ondata e in otto milioni si misero a letto con febbri altissime.
L’Asiatica sembrava molto esotica. Un tocco di magia, sempre cinese. Tutti i maschi facevano prima o poi battutine del genere: “Sono stato a letto con un’asiatica”, ma era un’amante che – diversamente da questa che imperversa adesso – attaccava e uccideva i giovani perché i più vecchi, sia nel 1957 che più tardi nel 1969, avevano nel loro sistema immunitario anticorpi ereditati dalle influenze precedenti e dalle generazioni precedenti, tutte comunque di origine suina o aviaria (pollame e anatre), tutte sbarcate dalla Cina e da Hong Kong, allora colonia britannica, o dal Sud Est asiatico. Le frontiere erano chiusissime. Nessuno andava in Cina perché prima dell’apertura provocata dal presidente americano Richard Nixon che andò a Pechino nel 1972, dopo aver inviato una squadra di giocatori di ping-pong, si contavano sulla punta delle dita i viaggiatori per la Cina. Io riuscii ad ottenere il visto per essere ammesso a un colloquio preliminare a Roma per andare a Pechino passando per Tirana (l’Albania di Enver Oxa era curiosamente un bastione cinese e gli albanesi di Calabria e Sicilia si sentirono subito maoisti) ma mi fu chiesto di tagliarmi la barba e io rifiutai, niente Cina.
Allora, anche quei ventimila morti della vera Asiatica (prima ondata) morirono per lo più in casa. In genere, di polmonite. La polmonite è in genere causata da una bestia che si chiama “pneumococco” contro cui ci si può vaccinare, ma quando arriva quella virale, allora puoi soltanto pregare il tuo Dio o sostituti laici. Anche se gli antibiotici non servivano a nulla contro i virus, a quei tempi i medici erano molto generosi in antibiotici perché si sapeva che dove il virus apre il solco, batteri e bacilli avrebbero festeggiato. E poi, qualcosa bisognerà pur fare. Quell’influenza ammazzava con una percentuale sacrificale inferiore all’uno per cento. Quella che abbiamo adesso fra di noi è una divinità più esosa: esige il tre per cento, forse 3,4. Se sappiamo far di conto, ciò vuol dire che ogni milione contagiati ne pretende 34 mila in vestito d’abete, le borchie sono optional.
L’Asiatica fece otto milioni di contagi e se dovessimo fare i confronti a parità di infettati, quella che gira adesso si porterebbe via un quarto di milione. C’è di buono che nessuno lo sa. C’è di cattivo che nessuno lo sa. Onestamente, nessuno sa molto, con precisione. Però tutti ci aggrappiamo alla storia e – orientalmente parlando – anche alla geografia: io ricordo, tu non c’eri e non sai, noi dovremmo ricordare. La pandemia delle pandemie fu la terrificante febbre detta Spagnola, che dal 1918 si portò via fra i 50 e i 100 milioni di persone nel mondo intero: più che nelle due guerre mondiali messe insieme.
Mia madre, nata nel 1912 se la ricordava benissimo e mi raccontava degli intrugli magici che in ogni famiglia si illudevano di trovare l’antidoto: aglio a tonnellate, peperoncino, bevande bollenti, impiastri, purghe, digiuni, regimi di sola carne, di solo pesce, di solo formaggio, tutti all’aria aperta, tutti blindati al buio di una casa dalle finestre sbarrate. Panico e allegria allo stesso tempo. Dopo la grande Asiatica del 1957 ci fu la Asiatica-2, detta Hong Kong sul finire dei Sessanta, quando ancora la tv era in bianco e nero e tutto era – per poco – nelle venti e più sfumature di grigio.
Non si percepiva l’epidemia e la parola pandemia era ignota. Un motivo c’era. L’uso dell’aereo nell’economia globale. La Spagnola impiegò mesi a diffondersi nel mondo, mentre ai nostri giorni ciò che accade in una lontana provincia cinese è subito in Europa e in America. Le compagnie aeree imbarcano miliardi di virus oltre che passeggeri.
L’idea della grande pestilenza appartiene ad un passato remoto e fa parte della letteratura ma di fronte alle ondate influenzali che si sono scatenate su di noi (tutte invariabilmente nate in Cina per le contaminazioni tra i virus che abitano negli animali allevati e macellati in condizioni igieniche infernali) ci siamo addestrati a pensare che un flagello biblico come un’epidemia mondiale non sia possibile. Che sia uno scherzo. Una esagerazione. Capita spesso in questi giorni di leggere o udire: “Non è che un’influenza! Ma avete idea di quanta gente muore ogni anno di una semplice influenza?”. È vero. E quel che successe alla fine degli anni Cinquanta lo dimostra. Tuttavia, non è una gara. Il poeta Georges Brassens scrisse una canzone in cui diceva che se c’era una guerra che davvero a lui piaceva moltissimo, era quella del 1914-1918 perché mai carneficina fu più atroce e insensata. La nostra Asiatica di oltre sessanta anni fa, fu la nostra prima grande guerra e la prendemmo con filosofia. “Mamma, ho l’asiatica”. Oppure: “mamma ha l’Asiatica”. Tutti abbiamo avuto l’Asiatica. A casa. Sia chi ce la faceva, sia chi soccombeva, circondato da amici e parenti. E chi moriva, moriva alla vecchia maniera, come nel 1928 Italo Svevo le cui ultime parole ai figli e ai nipoti nell’enfasi dell’agonia, furono: «Fijòi, vardè come se mòr» (“Figli, guardate come si muore”). La morte come momento privato, eroico, perfino didattico.
Non ricordo ospedali presi d’assalto nel 1957, quando sembrava che stesse per scoppiare la terza guerra mondiale, quando i carri armati sovietici avevano da poco fatto a polpette gli insorti ungheresi, gli anglofrancesi erano stati cacciati dall’ultima impresa colonialista a Suez e Nikita Krusciov sconvolgeva il mondo comunista con la sua relazione segreta al XX congresso del partito comunista sovietico rivelando i crimini di Stalin. Era un’epoca buia, disciplinata, militarizzata benché fossero da poco sbarcate due novità epocali: i blue jeans (col risvolto) e il Rock ‘n Roll che diventò subito la cura contro l’angoscia, contro il mal di vivere, contro la paura. C’era paura di tutto, e non si poteva avere paura di una banale, per quanto forte, influenza che ti lasciava annichilito, quasi stecchito, in piedi per miracolo: “Ha avuto l’asiatica”. Oh, diomio, ha bisogno di una cura ricostituente. L’Europa era comunista, esistenzialista, filoamericana, e antiamericana, fiuori dalla guerra, dentro la guerra. Tutto era serio e plumbeo, ai tempi dell’Asiatica.
Nei pochi anni che passai studiando medicina imparai questa straordinaria verità: ognuno di noi, dal momento del suo concepimento e finché non viene al mondo, ricapitola tutto il passato della vita nella sua evoluzione. Le parole sono auliche: l’ontogenesi ricapitola la filogenesi. Ma il concetto è magnifico. Significa che non siamo i primi, non siamo i soli. In fondo, siamo quel tipo di eroe che piace agli americani: siamo i surviver, siamo quelli che ce l’hanno fatta, figli dei figli dei più tosti, dei più resistenti, dei più vitali. I Platters cantavano Only You e noi ballavamo sulla mattonella, le ragazze erano belle e scostanti e avevano gonne lunghe e scozzesi che facevano volteggiare ballando il rock. I virus ronzavano fra di noi, ma ci baciavamo lo stesso.