Dario Di Vico, Corriere della sera, 29 X 2017
Liceali e laureati lasciano il Sud. E la società resta senza ricambio
Volendo catalogarla proviamo a definirla «nuova emigrazione intellettuale», nuova perché ha caratteristiche profondamente diverse dalle ondate del passato che avevano ridisegnato l’Italia a partire dagli anni ‘60, intellettuale perché riguarda per la stragrande maggioranza laureandi e laureati. I flussi da Sud a Nord non sono certo una novità nella storia patria ma i numeri che circolano giustificano un allarme che sarà ribadito nei prossimi giorni dal Rapporto annuale della Svimez. Se infatti già negli anni che corrono dal 2002 al 2015 il saldo migratorio netto di laureati segnava -198 mila, la tendenza si va rafforzando e coinvolge adesso anche i diplomati delle scuole medie superiori che vanno ad immatricolarsi negli atenei del Centro Nord. Conseguenze demografiche Il rischio è fin troppo evidente: un impoverimento culturale del Mezzogiorno senza precedenti, un drenaggio di intelligenze, competenze e talenti destinato a influenzare la vita civile, amministrativa e politica. «Può sembrare sproporzionato e anacronistico, al tempo delle grandi migrazioni dal Sud al Nord del mondo, focalizzarsi sulle migrazioni interne – spiega Giuseppe Provenzano, vicedirettore della Svimez – ma si tratta di un fenomeno rilevante che ha conseguenze demografiche più generali e pressoché unico nei Paesi sviluppati».
L’accenno alle conseguenze demografiche allude a un’altra pericolosa novità, il calo della fertilità. Il Sud non fa più figli come una volta e perde i suoi talenti, si crea così una tenaglia pericolosissima. Saltano le vecchie reti di subcultura che riproducevano tradizioni/ruoli e in parallelo non si sviluppa una società civile moderna, dinamica e responsabile. Chi studia il fenomeno delle vite mobili dei giovani meridionali segmenta in tre comparti i nuovi flussi Sud-Nord: i diplomati delle scuole medie superiori che scelgono di andare a studiare altrove, i laureati delle università meridionali che appena presa la pergamena volgono la prua nella stessa direzione e i pendolari a lungo raggio, residenti nelle regioni del Sud (magari solo per pagare una polizza auto più bassa) ma che di fatto vivono/lavorano a Nord. Cominciano dai teen ager. La mobilità universitaria in Italia è generalmente elevata, uno studente su cinque frequenta atenei che non sono localizzati nella sua regione ma questi trasferimenti visti dal Sud sono pressoché a senso unico.
Secondo l’economista Gianfranco Viesti, docente all’università di Bari un quarto degli studenti meridionali oggi si immatricola negli atenei del Centro-Nord. Nel 2015-16 Puglia e Sicilia hanno perso 6 mila studenti guadagnati da Lazio, Emilia e Lombardia e in totale oggi il 24% delle immatricolazioni (in valori assoluti 25 mila persone) ogni anno si sposta verso Nord. Viesti cita una ricerca della Fondazione Res che ha calcolato, tra l’altro, come sommando le tasse universitarie, l’alloggio e il vitto si trasferisce anche una spesa di 2,5 miliardi l’anno. «Se ne vanno gli studenti forti, quelli con il voto di diploma più alto, quelli che vengono dai licei e che hanno la famiglia con il miglior reddito». Le Università e il lavoro Cosa alimenta la diaspora? Viesti che sta conducendo una battaglia in merito risponde e polemizza: «Non discuto il valore di quelle università ma spesso il loro prestigio è costruito anche attraverso buone campagne sui mezzi di comunicazione e robusti investimenti di marketing».
A determinare il tutto, secondo l’economista barese, concorrono più fattori: l’ampiezza dell’offerta formativa, la maggiore qualità percepita di alcune università del Nord ma soprattutto i canali che esse offrono per incontrare la domanda di lavoro dei laureati. «Negli ultimi anni c’è stato uno spostamento degli studenti più verso Milano e Torino a danno del Lazio e della Toscana. Da cosa è dipeso? Da uno scadimento delle università del Centro o dal fatto che gli sbocchi di lavoro sono più forti al Nord? La risposta è facile». E un’ulteriore dimostrazione secondo Viesti la si rintraccia esaminando i dati dei laureati del triennio. Nel 2008-2014 l’11% dei meridionali e il 15% degli universitari delle Isole aveva scelto di prendere la successiva laurea magistrale al Nord, ora questi numeri sono saliti (e quasi raddoppiati) al 19 e al 29%. La tesi finale è semplice: non è tanto la variazione della qualità dell’insegnamento a spostare i numeri ma l’aumento delle differenze nel mercato del lavoro. Un ruolo decisivo nell’influenzare le scelte dei giovani liceali lo giocano anche la possibilità di spostamento e la disponibilità di reti di trasporto.
I collegamenti Nord-Sud sono aumentati di numero e calati di prezzo grazie ai voli low cost mentre rimangono del tutto carenti i servizi di trasporto dentro il Mezzogiorno. «Un siciliano può raggiungere con relativa facilità e a costi contenuti un ateneo del Centro-Nord mentre gli è impossibile raggiungere una facoltà della Calabria o della Puglia». E i numeri confermano: Trapani in virtù del servizio Ryanair vede i suoi giovani lasciare la città con una quota-record del 60% contro un modesto 6% dei teenager napoletani. «Le università del Sud però non sono del tutto innocenti – obietta Andrea Toma, ricercatore del Censis e autore di uno studio condotto per Confcooperative – La relazione che hanno saputo costruire con il sistema delle imprese in molti casi è debole». E così si finisce per creare «un circolo vizioso»: più immatricolati fuori, minori introiti per gli atenei, servizi meno curati e reputazione compromessa. «Non dimentichiamo poi – aggiunge Toma – che per i genitori del Sud spesso avere un figlio che studia al Nord è addirittura un elemento di status».
Dai teenager passiamo ai giovani meridionali che continuano a laurearsi nelle università del Sud ma che una volta finito il ciclo di studi si rivolgono immediatamente al mercato del lavoro settentrionale. Per rintracciare le loro scelte nelle statistiche le possibilità sono due: a) li si ritrova nelle cancellazioni – in aumento dall’anagrafe-: nel 2015 sono stati 30.700 i laureati che si sono trasferiti, erano 13 mila nel 2002 e 21.600 nel 2008; b) oppure vanno a ingrossare le fila dei pendolari di lungo raggio residenti nel Mezzogiorno che lavorano stabilmente al CentroNord. E’ questo il terzo segmento dei nostri emigrati intellettuali e nel 2016 contava ben 137 mila unità. Di cui ben 46 mila sono laureati, all’incirca un terzo. Quindici mila vengono dalla Campania, 12 mila sono siciliani, 6 mila calabresi e 5 mila pugliesi. È interessante annotare come Roma sia la calamita principale di questi laureati più del Nord Ovest e del Nord Est: nel 2016 hanno pendolato con la Capitale 22 mila laureati contro i 16 mila del Nord Ovest. La condizione transitoria di pendolare corrisponde a un progetto di vita incompiuto e non elaborato pienamente, in fondo non hanno ancora deciso se restare, andare all’estero o tornare nel Mezzogiorno. Un limbo causato anche da un mercato del lavoro diventato più precario e frammentato.
È comunque la strutturale carenza di occasioni di occupazione qualificata nel Sud a rappresentare, secondo gli analisti, la causa prima negli anni 2000 di questi flussi di pendolarismo. «Si sono ristretti gli spazi occupazionali nella pubblica amministrazione alle prese con problemi di budget e risulta del tutto insufficiente la presenza di imprese di medio-grande dimensione e dei servizi avanzati in grado di assumere personale di livello elevato. Manca la domanda» sostiene Provenzano. La perdita di tali professionalità diventa doppiamente penalizzante, determina il fallimento economico dell’investimento formativo (i costi) e il venir meno di energie e di competenze necessarie per far partire nel Sud un processo di sviluppo stabile e adeguato alle dimensioni demografiche dell’area. «Il calcolo del costo della formazione persa è presto fatto: se prendiamo il saldo negativo di 200 mila laureati accumulato dal 2002 al 2015 e lo moltiplichiamo per la media Ocse delle risorse necessarie per formare un giovane fino alla laurea, viene fuori una cifra-monstre di 30 miliardi» chiude Provenzano.
È chiaro che si parla di dinamiche di lungo periodo ma può essere utile capire cosa ne pensa il governo in carica che ha ripristinato il ministero per il Mezzogiorno affidandolo a Claudio De Vincenti. Il ministro non è pessimista sulla tenuta del sistema universitario meridionale. «Le università che hanno saputo realizzare un alto livello di docenza e hanno gettato le reti per una collaborazione con le imprese riescono ad essere attrattive. E non è vero che un sistema di premialità penalizzi necessariamente il Sud». Il governo Gentiloni ha varato una riforma del fondo di finanziamento ordinario «per tener conto degli elementi di oggettivo svantaggio, come reddito pro-capite e accessibilità territoriale, che penalizzano le università del Sud, ma abbiamo lasciato la premialità perché costituisce un incentivo a migliorarsi». Sia chiaro, sottolinea De Vincenti, che il Mezzogiorno per poter ripartire veramente avrebbe bisogno di un ciclo di ripresa economica «lungo e strutturale». Quanto agli sbocchi di occupazione qualificata che la pubblica amministrazione potrebbe tornare a fornire De Vincenti precisa: «L’amministrazione deve partire dalle sue esigenze di innovazione e solo come conseguenza determinare le sue politiche di reclutamento, se invertiamo questo processo finiamo per utilizzare lo Stato come ammortizzatore sociale e non va bene».