Eugenio Scalfari, La Repubblica, 28 VIII 2016
Il terremoto di Amatrice e tutti gli altri mali del mondo
La civiltà occidentale ha globalmente contrapposto il relativismo, lo scetticismo, la forza del dubbio alle certezze dell’assoluto.
*
Quando arrivò pochi giorni fa la notizia del terremoto ad Amatrice e in altre terre d’Abruzzo, di Umbria, delle Marche e del Lazio rietino, stavo rileggendo i Canti e le Operette morali di Giacomo Leopardi.
Ebbi grande commozione per quanto era accaduto. All’inizio i morti ritrovati sotto le macerie erano 38, ma si capiva che era soltanto un inizio: crebbero man mano che i ricercatori esploravano le case crollate, le chiese, gli alberghi e i tuguri dei poveri. Siamo quasi a trecento e non è ancora detto che sia la cifra definitiva.
Gran parte sono persone ed intere famiglie abitanti in quei luoghi, ma ci sono anche turisti capitati lì per svago e per la festa dell’Amatriciana. Potevano essere altrove ma il caso non l’ha voluto.
Questi fatti hanno scosso tutto il paese mettendo in sordina gran parte degli accadimenti altrettanto sanguinosi e terribili: la guerra in Siria, gli attentati in Turchia e le repressioni che ne derivano, il mare che inghiotte centinaia di emigranti e guerre, minacce, economie dissestate, crescente povertà e diseguaglianze, diffusa corruzione.
In Europa risorgono i confini, la democrazia traballa dove c’è ed è sempre più bandita dove non c’è mai stata.
Siamo dunque in una fase della vita nostra e di quella del mondo intero che sconvolge gran parte del pianeta. La ragione della caduta in pezzi di questo mondo?
C’è un Dio vendicatore che lancia fulmini sulle sue creature e sul male che possono aver fatto? Oppure siamo noi tutti, ciascuno per la sua parte, a determinare il caos? Questa è la parola giusta: il caos, il marasma, il disordine. Finirà? Che cosa dobbiamo fare per attenuare questo generale sconvolgimento? Oppure il mondo è sempre stato così e la vita esiste e perdura sostenuta dalla speranza che tuttavia è vana perché non raggiunge mai un risultato definitivo, ma parziale e precario?
***
Ho scritto all’inizio che quando arrivò la notizia del terremoto stavo rileggendo i Canti e le Operette morali di Leopardi. Lui, saggista, filosofo e poeta di grandissimo fascino artistico, fu uno dei più coerenti nichilisti della civiltà moderna. Un nichilismo totale, senza fessure o tentennamenti. Ce ne sono stati assai pochi del suo livello.
La civiltà moderna e specialmente quella dell’Europa e dell’Occidente, ha globalmente contrapposto il relativismo, lo scetticismo, la forza del dubbio alle certezze dell’“assoluto”. Sarà un vantaggio o un disastro rispetto ad epoche passate, ma questo è avvenuto. E tuttavia il relativismo ha ben poco a che fare con il nichilismo. Ci sono stati, dal Settecento in poi, periodi dominati dal pensiero nichilista, di fronte ad emergenze spaventose, ma sono stati periodi transitori e quando il peggio aveva ceduto al meno peggio, al tollerabile, al discreto o addirittura in certi momenti al meglio.
Pochi, lo ripeto, sono i nichilisti totali e definitivi. La sostanza del pensatore nichilista è il desiderio costante degli uomini d’essere felici e l’inesistenza della felicità. Può durare un attimo la felicità, ma non più che tanto. La felicità come “status” della vita e di una lunga fase di essa è inesistente. La speranza, certo; quella ti aiuta a campar la vita, ma le poche volte che si realizza dura poco più d’un respiro, che si tramuta presto in un sospiro.
Questa infelicità non affretta l’arrivo della morte; la maggior parte delle persone continua a vivere, si contenta, ride, motteggia, mangia l’amatriciana o altre gustose vivande, ma la società in cui vive ospita brandelli di felicità avvolti da una nube di infelicità dalla quale ogni giorno, ogni ora, ogni attimo si scatena il fulmine che colpisce questo o quello o molti o tutti: siano guerre, epidemie, povertà, delinquenza, incompetenza, malanni molto diffusi e presenti ovunque.
Il nichilismo constata questo caos di sofferenze e ne deduce che vivere è del tutto inutile. Non spinge al suicidio ma confida che la vita sia breve e vede la morte come l’unico vero bene.
Naturalmente il nichilista è ateo, quindi esclude che la morte sia apportatrice di felicità ultraterrene. Il solo vantaggio della morte è di eliminare la tua infelicità.
Ricorderete che ai tempi della Shoah, la terribile strage organizzata dai nazisti per motivazioni razziali, molti chiesero ai loro sacerdoti come mai Dio aveva accettato una situazione così assurda senza intervenire e molti degli interrogati risposero che Dio di fronte ad un massacro di quel genere, perpetrato dai portatori del male, si era ritirato dietro le nuvole. Un modo assai improprio per persone di fede religiosa.
Il nichilista ovviamente ateo pensa invece che il male, anche il più orribile, il più inatteso, prodotto dagli uomini o dalla natura o da quei due elementi uniti insieme, sia lo stato usuale della vita e quanto benvenuta sarebbe la morte. Lo scrisse anche Francesco d’Assisi nella canzone delle Laudi parlando della morte come “sorella corporale” laudata anch’essa perché non fa alcun male. Francesco non era certo un nichilista, era un mistico. Ebbene, certe persone pensano che il nichilista sia anche lui un mistico. Leopardi non lo sapeva ma certamente lo era e basta leggere i suoi Canti per capirlo.
Chi vuole esaminare un personaggio di quel livello si domanda se il poeta sia nel suo caso più importante del filosofo o viceversa. A me è accaduto di pensare e di scrivere che la figura del filosofo è dominante e il poeta sia l’aspetto sentimentale della sua filosofia. Ma il tempo passa e la mente d’ogni persona cambia con lo scorrere del tempo, sicché il mio pensiero considera ora il poeta l’elemento dominante di quel personaggio che è uno dei più illustri della letteratura italiana. “Il primo amore”, “L’ultimo canto di Saffo”, “L’Infinito”, “Alla luna”, “Il passero solitario”, “A Silvia”, “Le ricordanze”, “Amore e morte”, “A se stesso”, “Il tramonto della luna”, “La ginestra” sono i gioielli d’una anima dominata da “Sora nostra morte corporale / de la quale nullu homo vivente pò scappare”.
Questo non è nichilismo, è l’espressione mistica di un poeta. Nell’arco di un secolo simili a lui furono Rilke, Poe, Baudelaire e da noi il D’Annunzio dell’“Alcyone”, Montale, Ungaretti, Quasimodo. Ma lui, debbo dirlo, li sovrasta quasi tutti.
Concluderò pubblicando alcuni brani di uno dei suo canti più belli: “Le ricordanze”. La sofferenza dell’anima s’è insinuata tra quelle righe e ha lasciato la sua impronta fino a diventare essa stessa la sostanza di quel canto disperato.
O speranze, speranze; ameni inganni della mia prima età! Sempre, parlando, ritorno a voi che per andar di tempo, per variar d’affetti e di pensieri, obliarvi non so…
Ahi, ma qual volta a voi ripenso, o mie speranze antiche ed a quel caro immaginar mio primo, indi riguardo al viver mio sì vile.
E sì dolente, e che la morte è quello che di cotanta speme oggi m’avanza; sentoserrarmi il cor, sento ch’al tutto consolarmi non so del mio destino…
e spesso all’ore tarde, assiso sul conscio letto, dolorosamente alla fioca lucerna poetando, lamentai co’ silenzi e con la notte il fuggitivo spirto ed a me stesso in sul languir cantai funereo canto.