Claudio Fabretti, Leggo, 25 XI 2019
The wall, un muro lungo 40 anni: la rivoluzione dei Pink Floyd
Vecchi muri crollano, nuovi muri nascono, ma quello dei Pink Floyd resta fisso da 40 anni al centro della storia del rock. Il 30 novembre 1979 si rivelava al mondo The Wall, il concept-album più amato, riprodotto, imitato e frainteso di sempre (oltre che bestseller da oltre 20 milioni di copie vendute). Mai come in questo caso le ossessioni e le paranoie di un singolo musicista sono riuscite a dar vita a un immaginario così universale.
A Roger Waters bastò uno spunto banale – il suo sentirsi sempre più alienato dal pubblico del gruppo, culminato nel famigerato sputo a uno spettatore a Montréal nel 1977 – per edificare un gigantesco incubo collettivo. Perché The Wall è in fondo la colonna sonora che ognuno di noi può adattare ai suoi abissi più cupi. E al tempo stesso, i risvolti simbolici, sociali e politici dell’opera hanno finito col travalicarne la chiave psicologica individuale.
Ad esempio, nella Germania divisa tra Est e Ovest, The Wall è diventato una bandiera della lotta contro quella frattura simboleggiata dal Muro di Berlino, tanto che nel 1990, con le macerie ancora fumanti di quella barriera, Waters verrà chiamato a riprodurlo dal vivo nella capitale ormai unificata, davanti a una folla immensa.
In Sudafrica, Another Brick In The Wall, da canzone di protesta contro i metodi oppressivi di insegnamento che era, si è trasformata in un inno anti-apartheid. E quando in Bring The Boys Back Home – considerato dal bassista il momento clou dello show – scorrono sul muro le immagini di un bambino che stringe la mano a un soldato, a simboleggiare gli affetti spezzati dalla guerra – è come se Waters si stesse rivolgendo alle vittime di tutti conflitti che insanguinano il pianeta.
Eppure, è “solo” la storia di Pink, rockstar plasmata su Waters, che arriva a isolarsi dietro un “muro” mentale a causa di una serie di traumi psicologici (la morte del padre nella seconda guerra mondiale, la madre iperprotettiva, gli insegnanti autoritari, i tradimenti della moglie).
Ma non c’è solo il messaggio. Il concept floydiano resta anche una formidabile raccolta di canzoni – da Hey You a Comfortably Numb passando per Mother – in bilico tra rock e funk, psichedelia e ballate intimiste in linea con il futuro Waters solista. Un’opera corale nata in studio di registrazione: ingegneri del suono, arrangiatori, produttori portano a compimento il percorso intrapreso sei anni prima con l’altro kolossal The Dark Side Of The Moon.
E se il suono che ne scaturisce è perfetto, altrettanto straordinaria è la potenza evocativa della grafica di Gerald Scarfe, che, assieme ai disegni della copertina, curerà le animazioni dello show e del film. Già, perché The Wall è soprattutto uno dei più riusciti progetti multimediali della storia del rock: quasi impossibile immaginarlo spogliato della componente visuale, che trionferà proprio nei concerti in technicolor – portati in giro per il mondo dalla band prima e dal suo ex-leader poi – e nel film di Alan Parker del 1982, con Bob Geldof nei panni del protagonista Pink.
Sarà anche il disco che porterà alle estreme conseguenze il dissidio tra Waters e gli altri. Affidato il suo testamento floydiano al requiem anti-bellico di The Final Cut (1983), il leader supremo toglierà il disturbo. Ma The Wall resterà il sigillo definitivo alla sua straordinaria stagione alla testa della band inglese.
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Intervista a Carlo Massarini
«SUI MATTONI DI QUEL MURO, UN INCUBO COLLETTIVO»
Carlo Massarini, che cosa rappresentava quel muro allora e cosa rappresenta oggi, in un’epoca in cui alcuni muri sono caduti e altri se ne vogliono costruire?
«Lì erano gli incubi personali di Waters che diventavano simbolo, che raggiunge il punto più alto quando nel 1990 è portato in scena ad Alexanderplatz, di fronte al Muro di Berlino demolito appena un anno prima. Oggi i muri vengono eretti (o minacciati) per contenere, separare: è solo l’inizio dell’evoluzione della trama di Waters, chissà se il finale sarà altrettanto liberatorio, o solo una prosecuzione dell’incubo».
Fu anche uno spartiacque nella storia dei Pink Floyd: finì con il dividere le strade del leader e del resto della band…
«Lo spunto è proprio l’ultima tappa del tour precedente, quando Waters, innervosito dalla caciara di alcuni spettatori in prima fila, sputa verso di loro e pensa che vorrebbe costruire un muro fra il palco e il pubblico. Due anni dopo, i rapporti erano ormai usurati, in parte anche per le difficoltà di realizzare un album di tal magnitudo».
La sua peculiarità sta anche nell’essere un disco multimediale, da leggere su più livelli (disco, show, film)?
«Sì, anche se non è stato il primo. Gli Who con Tommy, dieci anni prima, e Quadrophenia, avevano già declinato la storia su più medium: disco, teatro, cinema, colonna sonora (The Wall ha anche una versione operistica)».
Al di là del messaggio di Waters, è un disco in cui ognuno può trovare nuove chiavi di lettura. È anche questo ad averlo reso sempre attuale?
«Sì, rimangono leggendari l’impianto mastodontico dal vivo, che Waters ora porta in tour solista (maggior incasso di sempre di un singolo performer), e la complessità della scrittura. Vi si intrecciano tanti temi diversi: la solitudine, la guerra (da sempre un tema fondamentale di Waters, il cui padre è morto nello sbarco alleato di Anzio), l’alienazione della star, la rigidità del sistema scolastico inglese, i sistemi totalitari. E, infine, la redenzione attraverso la presa di coscienza. È un disco molto visuale, che ripercorre un viaggio interiore paranoico e disperato, dentro e fuor di metafora».
Che tipo di hit fu il singolo “Another Brick In The Wall”?
«È un unicum – per arrangiamenti, ritmo – della loro storia. Molto lontana dagli inizi psichedelici. Non volevano farla uscire a 45 giri, non con quella base simil-disco. Fu il produttore Bob Ezrin a imporsi, ed è stata una delle chiavi del successo dell’album. Il brano – col coro di bambini che incalza – ha un’efficacia pazzesca».
Perché dopo “The Wall” è diventato sempre più difficile realizzare concept-album?
«Quelli erano gli anni dei concept-album, dischi con una trama e un pensiero unificante. Da Sgt. Pepper’s ai Pink Floyd è stata una stagione memorabile. Le rock opera non sono finite lì, ma ormai tutte le band che ne avevano i mezzi si erano già cimentate. È una buona idea, ma ambiziosa, complessa e perennemente a rischio di gigantismo e banalità insieme».