Vittorio Macioce, Il Giornale, 2 XI 2016.
Maledetta borghesia ha perso l’anima in fondo a un aperitivo
“Gin tonic a occhi chiusi” di Marco Ferrante svela una classe sociale a cui serve una correzione per ritrovare se stessa.
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Il necrologio. Il necrologio ti svela tutto. Ti racconta lo stato di salute di una famiglia borghese. Cosa scrivere quando muore la figura centrale, in questo caso la matriarca? L’essenziale.
Perché altrimenti vengono fuori devianze, errori, deragliamenti. Figlie di secondo letto che mettono in imbarazzo la moglie, conviventi che feriscono i figli di primo letto, amanti che vogliono un posto non clandestino al funerale. Il necrologio perfetto è una correzione. Come nel romanzo di Jonathan Franzen. È il tentativo, vano, di ritrovare una legge morale. O perlomeno di salvare l’apparenza. Ma le famiglie borghesi non stanno morendo di ipocrisia. Quella sapevano come gestirla. No, muoiono di inettitudine. Non hanno più talenti. Né coraggio né spirito d’impresa.
Maledetta borghesia. Maledetta perché sta invecchiando male. Maledetta perché si è rinnegata e sputtanata, perché non ha più onore, né orgoglio, né doveri. Maledetta perché non rischia, ma si abbevera di effimero e straparla, strabocca, spettegola, sprofonda. Maledetta perché è cieca e la cecità è la sua strada. Maledetta per come la racconta Marco Ferrante in Gin tonic a occhi chiusi (ed. Giunti, pagg. 347, euro 16).
Questa è la storia di una famiglia infelice, a modo suo e nonostante tutto. Una matriarca, un padre rassegnato, tre fratelli, il primo fa il commercialista, il secondo è un deputato, il terzo un giornalista che non crede a nulla, e poi due mogli, divorzi, altre mogli, fidanzate occasionali, mamme e figli ancora piccoli, amanti, amiche delle mogli, amiche delle amanti, assistenti parlamentari dal mestiere incerto, ai confini del mignottismo morale e non solo morale.
Se uno li guarda da lontano ti viene pure da invidiarli. Non sono simpatici, ti avvicini e li trovi insopportabili, perché l’intimità li rende meschini, piccoli, mediocri, precisi nella forma e sciatti nella sostanza. Pensi che gente così non vorresti mai incontrarla, poi ti accorgi che bene o male ti circondano. Non sono il tuo mondo, ma li conosci, ti sfiorano, qualche volta ci vai a cena insieme, alcuni sono perfino tuoi amici. Vivono a Roma, sai dove incontrarli, e se proprio bisogna definirli si può dire che sono media-alta borghesia. Che la storia abbia pietà di loro.
Sono passati diciotto anni da Mai alle quattro e mezza (Fazi). Era il 1998. Storia di chi allora stava smarrendo i suoi trent’anni, in cerca di promesse non mantenute, di qualcosa a cui aggrapparsi, magari cercando di fuggire dallo smarrimento politico e sociale di quel tempo che già si preparava a cancellare il futuro. Da allora tutto quello che poteva peggiorare è peggiorato. Marco Ferrante per tutti questi anni non ha pubblicato altri romanzi. Ha fatto altro, non solo il giornalista, e ovunque ha lasciato i segni del suo talento. Come con Casa Agnelli (Mondadori), biografia di una aristocrazia repubblicana, di una famiglia reale senza monarchia. Come adesso. La respiri in giro questa voglia di romanzo borghese, perché il romanzo nasce per raccontare la borghesia, e starà ancora lì a vederla morire, semmai questo dovesse accadere. Per ora ne assapori la vecchiaia, la resa, la decomposizione, la crisi di un’élite che non ha più la forza per dire o rappresentare qualcosa. Ti immergi, li segui, li guardi in faccia e ti accorgi che l’unica fatica che fanno è cercare di sopravvivere.
Gin tonic a occhi chiusi è un romanzo sulla seduzione a basso costo, sui rapporti di potere tra gli individui e come una classe sociale smarrita e spaventata cerca di sopperire alla perdita di identità con la bulimia di oggetti e parole simbolo. È una borghesia che ha sposato, senza riconoscersi, le sue due anime inconciliabili. Lo si vede nel rapporto tra la matriarca e la nuora. Una viene dall’impresa, l’altra dallo Stato. Elsa e Nucci. «Le differenze esistenziali emergono su piccoli dettagli. Il senso del tempo, per esempio. Nucci lo divide nettamente tra il tempo di lavoro, cioè l’ufficio, e il tempo personale e privato, da dedicare ai figli soprattutto. Per Elsa il tempo è unico. Lei contemporaneamente fa la moglie, la madre, pensa a sé (quando deve) e amministra il suo patrimonio senza soluzione di continuità. Per lei la vita è una sola». Nucci segue la religione del pubblico, Elsa quella del privato. I personaggi della borghesia romana sono serigrafie di Andy Warhol, una serie di zuppe Campbell’s dalle diverse sfumature. Sono merce che accumula merce e si sbatte per il quarto d’ora di celebrità. La scrittura di Marco Ferrante li tratteggia con pennellate veloci che fissano frammenti di conversazione, interessi, oggetti, manie, romanzi che assolutamente non si possono non leggere, design, un Tumbler blu o un Omega speedmaster, canzoni totem, ridicole intimità, vezzi, quel modo di toccarsi il naso, le orecchie, i capelli. Ranieri, il terzo figlio, il giornalista, incarna tutto questo. «Lui ha sempre tutto. Chinotto, crodino, Coca-Cola, succhi vari, Vodka Belvedere e altri prodotti polacchi che vanno per la maggiore, Campari, Bitter San Pellegrino, Perrier, aranciate dolci e amare, birre artigianali, birre tedesche e sudamericane, vini italiani, vini francesi, vini israeliani (kosher), vini australiani, whisky, grappe, quattro o cinque gin uno diverso dall’altro – uno super secco per il Martini – e numerose marche di soda». Cosa sa fare? Quale è il suo unico talento? Preparare un gin tonic a occhi chiusi.