Marco Tansella, Altalex, 10 V 2019
Crollo degli iscritti a giurisprudenza, cause e necessità di cambiamento
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Secondo l’Anvur, dal 2006 al 2018 il numero degli iscritti al primo anno nelle facoltà italiane di legge è sceso da 29.000 a 18.000 (-38%). Nello stesso periodo, il numero totale degli iscritti è sceso di 53.000 unità (erano l’11,1% del totale degli iscritti nelle università italiane; ora sono il 7,2%). Cifre, queste, determinate da un fenomeno generato da una pluralità di concause. Sembra tuttavia incidente la lunghezza del percorso laurea-inserimento nel mercato del lavoro: un lasso di tempo che si protrae ben oltre la laurea magistrale per tutte le professioni classiche (avvocatura, magistratura e notariato).
In seguito al conseguimento del titolo di studio sono infatti necessari 18 mesi di praticantato (per notai e avvocati) oppure due anni di Scuola di specializzazione (le Sspl) per accedere all’esame di abilitazione o al concorso in magistratura. Altro dato sconsolante, quello dello scarso livello occupazionale dei laureati in giurisprudenza a tre anni dalla laurea: a un anno dal conseguimento del titolo, solo poco più un quarto dei laureati risulta occupato: il 26,5% (contro una media nazionale del 53%).
Sembrerebbe trovare riscontro, dunque, l’ipotesi che il mercato del lavoro legale sia saturo. Un mito da sfatare (o quantomeno, ridimensionare): non sono troppi i laureati in giurisprudenza, rispetto alle attuali possibilità di inserimento che il mercato offre loro. La realtà impone di accettare che ad essere troppo pochi siano i neolaureati attrezzati e predisposti ad entrare in un mercato del lavoro diverso da come se lo immaginavano nel percorso di studi.
Nel 2019, i neogiuristi hanno bisogno di una preparazione poliedrica. In Europa parlano di professione legale 4.0, perché l’impiego giuridico deve essere percepito con una nuova consapevolezza. Fino a qualche anno fa, non si parlava certo di soft skills o di lingue straniere. Non si parlava di smart contracts. Il diritto, per qualcuno, era ancora quel concetto tradizionale di norme e regole per il buon vivere civile. Oggi questo sguardo non regge di fronte ai mutamenti che la professione sta subendo.
Oggi il mercato del lavoro richiede al laureato in giurisprudenza skills e competenze distanti dal radar accademico-didattico di numerosi atenei italiani. A fine laurea, gli studenti rischiano di trovarsi poco specializzati, perché reduci da uno studio mnemonico di norme e codici, a fronte di tipologie di esami che a volte sembrano modellati proprio per incentivare questo tipo di approccio allo studio, solo teorico e manualistico. L’acquisizione di tasks e procedure – che nella mente dello studente dovranno essere apprese e messe in pratica in un futuro piuttosto remoto – rimane sfavorita. Un metodo di apprendimento che rivela facilmente le ragioni per cui il bagaglio formativo dei neolaureati rimane spesso precario e lacunoso.
Troppi i corsi di laurea che puntano sulla preparazione normativa manualistica tradizionale, poco sensibili alle esigenze pratiche del futuro giurista, che dovrà imparare a saper negoziare col lessico giuridico di lingue straniere, a comunicare con efficacia, a delegare e a dare il feedback. Una figura che dovrà avere le competenze per mettere in atto contratti e negozi giuridici tramite dispositivi nuovi e complessi, che stanno diffondendosi in un mercato digitale ormai globale. L’università deve formare gli studenti al problem solving, al potere del network, al lavoro in team. Molte già lo fanno. Diverse in Europa. Alcune – poche – anche in Italia. Le stesse, si badi, che riescono ad inserire più spesso e più velocemente figure professionali nel mercato del lavoro legale.
Era il 2006, quando Alberto Musy (Professore ordinario di Diritto privato comparato all’Università del Piemonte orientale, scomparso nel 2013) si faceva portavoce della necessità di cambiamento, in un contesto già evoluzionistico. Egli anticipava, su una rivista Torinese, come a cambiare non sarebbe stata solo la figura del giurista, ma anche le modalità in cui si sarebbe svolta la professione. “Si assiste alla nascita di colossi della consulenza legale la cui importanza va via via aumentando, fino a farli assurgere a nuovi centri di emanazione di sapere giuridico […]. L’avvocato ha assunto ruoli diversi da quelli tradizionali, o da quello che la tradizione forense ci ha tramandato. Da nobile mediatore tra le ragioni dei privati e le esigenze dell’autorità costituita, da custode delle tecniche della interpretazione del diritto, si trova a essere a un tempo imprenditore di se stesso, promotore, consulente, mediatore culturale di fronte alla pluralità delle fonti normative (nazionali e internazionali), preoccupato delle crescenti incursioni di altre discipline nel campo giuridico (finanza, economia, psicologia).”
I giuristi del futuro dovranno anche accingersi ad applicare il diritto in aree nuove, a professionalizzarsi in nuove discipline. Tra le rivoluzioni che il mondo legale sta conoscendo, prima tra tutte è probabilmente quella del processo telematico. I neogiuristi dovranno avere dimestichezza con le nuove modalità di deposito dei ricorsi in quel settore. Alcuni atenei si sono attrezzati. Nel merito, l’Università Europea di Roma ha inserito un corso di “diritto e gestione delle nuove tecnologie”, in una proposta formativa che vede al giurista del futuro come un professionista capace di utilizzare nuovi software e di captare il linguaggio telematico con cui questi ultimi forniscono argomentazioni giudiziali. Inoltre, gli studenti devono avere la possibilità di mettere in atto la normativa studiata. Non solo per conoscere in prima persona cosa significa dibattere una controversia in aula, ma anche per relazionarsi in squadra, per affascinarsi alla materia in modo interattivo. Le 4 università milanesi (Statale, Bicocca, Cattolica e Bocconi), sempre più all’avanguardia, collaborano con la sezione locale di ELSA (European law student association) nell’organizzazione intra-cittadina di una moot court (competizione processuale) in diritto penale. Necessario anche un sostegno all’orientamento al tirocinio e al placement. L’associazione Alumni Giurisprudenza, dell’Università di Trento, dal 2015 mira ad organizzare attività formative e di crescita professionale tra i neolaureati, consapevoli delle necessità di confronto e aggiornamento col mondo professionale. Gli esempi locali ci sono. Vanno presi a modello, e inseriti in una proposta formativa articolata, che farebbero del corso in giurisprudenza una scelta ancora più attraente e suggestiva di quanto risultava essere fino a pochi anni fa.
Altro settore ormai aperto è quello dei rapporti transnazionali, anche per via degli acquisti online: è importante perciò avere basi solide di diritto comunitario e internazionale e, quindi, aver potuto sviluppare una adeguata conoscenza della lingua. Secondo Ettore Gassani, presidente nazionale degli avvocati matrimonialisti “Oggi il 90 per cento degli avvocati italiani non parla lingue straniere”. In effetti, secondo Almalaurea, solo il 14 % dei laureati in Giurisprudenza ha svolto esperienze di studio all’estero riconosciute dal proprio Ateneo. Questo fa perdere molte opportunità. Il diritto internazionale, il diritto ambientale, i contenziosi con i paesi esteri per l’e-commerce, l’antitrust, le operazioni di fusione e acquisizioni, sempre più frequenti con la globalizzazione, sono tutti ambiti con forte richiesta. Ma anche qui è necessaria una adeguata preparazione, coadiuvata da opportunità Erasmus e da esperienze di studio all’estero che, come detto, in pochissimi intraprendono. Tutti settori, questi, che con adeguate riforme del piano di studi amplierebbero a dismisura gli ambiti professionali dei futuri giuristi.
Esistono, quindi, numerose possibilità per i futuri giovani giuristi. Molte di queste offrono carriere diverse dalle professioni legali tradizionali. Dati alla mano, secondo Censis il 55,9% dei neolaureati ambirebbe a trovare un lavoro nel settore della consulenza economico-legale. La digitalizzazione delle banche dati poi, impone la presenza del giurista informatico: uno specialista della tutela della privacy, della riservatezza e segretezza dei dati, di Internet Law, del Diritto Amministrativo elettronico e dell’informatizzazione della Pubblica Amministrazione, del commercio elettronico e dei contratti informatici, del diritto industriale, di brevetti software, del diritto d’autore e di proprietà intellettuale, del diritto penale informatico e in particolare dei c.d. computer crimes. E ancora: in costante sviluppo i settori della composizione delle liti prima di una causa, con la necessità di “negoziatori” professionisti, e della risoluzione stragiudiziale di eventuali conflitti tramite la mediazione e gli arbitrati.
Limitarsi dunque al binomio avvocatura-tribunale può rendere il mercato del lavoro legale più saturo di quel che sembra. Ma bisogna stravolgere le aspettative, per rivoluzionare il percorso formativo tradizionale. Le facoltà dovranno preparare i loro studenti all’eventualità di potersi voler allontanare dalle carriere giuridiche tradizionali.
Oppure, quantomeno, dovranno approntare i neolaureati ad intraprendere una professione, come quella dell’avvocato, che anche in Italia sta dovendosi reinventare per adeguarsi e resistere alle evoluzioni del settore. Le università dovranno gettare le fondamenta della formazione dei giuristi 4.0. Questo con una offerta formativa che comprenda, solo per dirne alcune, una più vasta gamma di esami economico-finanziari a scelta, corsi di diritto informatico, un più ferrato studio del lessico giuridico di lingue straniere, simulazioni processuali di contenziosi, visite istituzionali, tirocini formativi sin dal quarto anno di studi.
Il diritto nasce come disciplina dinamica: è in corso un’evoluzione. Il giurista non perderà mai il suo ruolo di mediatore, di persona. L’umanità alla base del suo approccio professionale rimane: questa, tuttavia, va oggi restituita a dispositivi e linguaggi complessi, nuovi, rivoluzionari. Una grande sfida per tutti i professionisti del diritto. Specialmente e soprattutto, per coloro che si prestano ad insegnarlo.