L’Espresso, 11 XI 2015.
Il Vaticano, la libertà di stampa e i giornalisti che hanno il solo torto di aver scritto cose vere
La decisone di indagare Emiliano Fittipaldi e Gianluigi Nuzzi per i loro libri riporta la Santa Sede indietro di secoli, quando il Sant’Uffizio redigeva l’indice dei libri proibiti. Ma a dieci giorni dall’inizio del caso nessuno ha ancora smentito una sola notizia contenuta nei volumi incriminati
In origine era il Verbo. E, più laicamente, in origine erano le parole, e il divieto di pubblicarle, stamparle, venderle e comprarle qualora presentassero contenuti eretici. Era questo il rapporto della Chiesa con la carta stampata all’inizio dell’era Gutemberg. Arrivò poi con la Controriforma del Concilio di Trento l’“Index librorum prohibitorum a Summo Pontifice”, l’indice dei libri proibiti, redatto dal Sant’Uffizio, soppresso alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, dopo il Concilio Vaticano II.
La Chiesa di papa Francesco si richiama alla lezione di quel Concilio che ha riconosciuto e promosso le grandi libertà universali dell’uomo, tra cui la libertà di pensiero e di espressione a mezzo stampa. Ma la decisione resa nota oggi di sottoporre a inchiesta due giornalisti, il nostro Emiliano Fittipaldi e Gianluigi Nuzzi, accusati di aver pubblicato due libri, riporta il Vaticano indietro di decenni, se non di secoli. Quando la coincidenza di potere temporale e potere spirituale avrebbe reso immediatamente esecutivo il sequestro e la distruzione dei volumi in questione e la punizione degli autori.
Oggi, per fortuna, non funziona più così. I libri hanno invaso vetrine e scaffali, viaggiano rapidi di mano in mano, di lettore in lettore. I giornalisti partecipano da protagonisti al dibattito pubblico che si è aperto grazie al loro lavoro. Numerose voci ecclesiastiche hanno espresso il loro apprezzamento. E il papa in persona, ieri a Firenze, ha affermato di preferire una chiesa «inquieta» a una dormiente, in cui gli scandali vengono taciuti e le notizie fatte circolare solo a scopo di intimidazione o di ricatto.
A dieci giorni dall’inizio del caso, con il clamoroso fermo di monsignor Lucio Vallejo Balda e di Francesca Chaouqui, nessuno è ancora riuscito a smentire una sola informazione contenuta in “Avarizia” o in “Via Crucis”. E dunque indagare su due giornalisti colpevoli di aver portato a conoscenza dei lettori quanto hanno saputo dai colloqui con le loro fonti e dallo studio paziente e meticoloso dei documenti significa colpire la libertà di stampa: tutti noi, non solo chi di mestiere fa il giornalista, ma anche i lettori che hanno il diritto di essere informati.
Fittipaldi e Nuzzi hanno il solo torto di aver scritto cose vere. Non la verità assoluta, per carità: quando è comparsa in questo mondo è stata crocifissa, i custodi del messaggio cristiano dovrebbero saperlo bene. E, a proposito di verità cristiane, nel Vangelo di Matteo il fondatore della Chiesa cattolica affida ai suoi discepoli il compito di portare alla luce quello che finora è stato nelle tenebre, di gridare dai tetti quello che è stato sussurrato all’orecchio. Che, a pensarci, è anche una metafora anche dell’umile, parziale ma prezioso lavoro giornalistico. Quello che ora qualcuno in Vaticano vorrebbe riportare nel buio.
La Chiesa di papa Francesco si richiama alla lezione di quel Concilio che ha riconosciuto e promosso le grandi libertà universali dell’uomo, tra cui la libertà di pensiero e di espressione a mezzo stampa. Ma la decisione resa nota oggi di sottoporre a inchiesta due giornalisti, il nostro Emiliano Fittipaldi e Gianluigi Nuzzi, accusati di aver pubblicato due libri, riporta il Vaticano indietro di decenni, se non di secoli. Quando la coincidenza di potere temporale e potere spirituale avrebbe reso immediatamente esecutivo il sequestro e la distruzione dei volumi in questione e la punizione degli autori.
Oggi, per fortuna, non funziona più così. I libri hanno invaso vetrine e scaffali, viaggiano rapidi di mano in mano, di lettore in lettore. I giornalisti partecipano da protagonisti al dibattito pubblico che si è aperto grazie al loro lavoro. Numerose voci ecclesiastiche hanno espresso il loro apprezzamento. E il papa in persona, ieri a Firenze, ha affermato di preferire una chiesa «inquieta» a una dormiente, in cui gli scandali vengono taciuti e le notizie fatte circolare solo a scopo di intimidazione o di ricatto.
A dieci giorni dall’inizio del caso, con il clamoroso fermo di monsignor Lucio Vallejo Balda e di Francesca Chaouqui, nessuno è ancora riuscito a smentire una sola informazione contenuta in “Avarizia” o in “Via Crucis”. E dunque indagare su due giornalisti colpevoli di aver portato a conoscenza dei lettori quanto hanno saputo dai colloqui con le loro fonti e dallo studio paziente e meticoloso dei documenti significa colpire la libertà di stampa: tutti noi, non solo chi di mestiere fa il giornalista, ma anche i lettori che hanno il diritto di essere informati.
Fittipaldi e Nuzzi hanno il solo torto di aver scritto cose vere. Non la verità assoluta, per carità: quando è comparsa in questo mondo è stata crocifissa, i custodi del messaggio cristiano dovrebbero saperlo bene. E, a proposito di verità cristiane, nel Vangelo di Matteo il fondatore della Chiesa cattolica affida ai suoi discepoli il compito di portare alla luce quello che finora è stato nelle tenebre, di gridare dai tetti quello che è stato sussurrato all’orecchio. Che, a pensarci, è anche una metafora anche dell’umile, parziale ma prezioso lavoro giornalistico. Quello che ora qualcuno in Vaticano vorrebbe riportare nel buio.