Francesco Finocchiaro, Corriere Etneo, 10 V 2020
Vitruvio è morto: il de profundis dell’arte di costruire architetture e città
L’architettura è morta. Scomparsa sotto tonnellate di carte. Imbrigliata da un labirinto di norme che rendono impossibile ogni atto creativo e compositivo. L’architettura non è un’arte, come la scultura o la pittura. Brunelleschi, Alberti, Palladio e Scarpa non hanno più una patria (l’elenco sarebbe più lungo). L’architettura è stata sepolta e sacrificata sull’altare dell’oggettività tecnica.
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Nel 2011, a Roma, partecipai a un seminario dal titolo “Resistenza”. Era organizzato da Jesus Aparicio Guisado, docente della facoltà di architettura di Madrid, all’interno dell’attività della Reale Accademia di Spagna a Roma. Non riuscivo a capire il nesso tra il titolo del seminario e il tema dell’architettura, almeno non immediatamente.
Resistenza era un termine che mi riportava subito ai tempi della guerra e quindi alle battaglie, alla guerriglia, alla lotta verso il potere opprimente e uniformante, esercitato da chi desiderava la libertà. Cominciai a comprendere piano piano, negli anni a seguire, il senso di quella riflessione, tra alcuni giovani architetti italiani e spagnoli che si interrogavano sul futuro dell’architettura, sull’opportunità di esercitare un mestiere sempre più complicato e sul riconoscimento della qualità del fare architettura. Bisognava fare Resistenza a ciò che stava opprimendo l’architettura.
Certamente, l’eredità culturale, artistica e tecnica che ci offre la storia è imbarazzante. Basta guardarsi appena indietro nel tempo, senza la necessità di andare lontano e si registra un atlante straordinario di esperienze, di esempi e di testimonianze che raccontano il valore tecnico e artistico dell’architettura. In un contesto privo di codice degli appalti e di tutte quelle disposizioni bizantine che apparentemente dovrebbero tutelare qualcuno e qualcosa e invece umiliano l’arte.
Molte generazioni sono cresciute con le più importanti riviste del settore – Casabella, Domus, per citarne alcune – che avevano una prevalente funzione didattica e formativa. Disegni, particolari costruttivi, testi e qualche foto. La rappresentazione dell’architettura fatta per raccontare il progetto, la sua genesi, le sue implicazioni culturali e sociali. Le opere proposte erano pietre miliari e rappresentative di correnti, movimenti e tendenze che educavano alla qualità profonda, alla qualità di sostanza, prive di un’effimera iconografia superficiale. Il disegno discretizzava l’involucro, lo destrutturava, per offrire l’occasione di approfondire la natura stessa dell’architettura.
Oggi – spesso – assistiamo all’iperproduzione di figurine di architettura che rendono bulimica la produzione sia sulla carta stampata che sul web. Al punto che pur di pubblicare qualcosa (qualsiasi cosa) siamo disposti a pagare per apparire. Perché le pubblicazioni non sono funzionali alla didattica ma all’apparire. Essere o non essere dentro quelle riviste equivale a un riconoscimento di valore per se stessi. Le riviste erano l’equivalente di un libro da studiare ora sono una vetrina dove apparire e piacere a tutti, anche a me. Qualcuno ha usato il nostro innato narcisismo per creare il mercato dell’apparire. Questo non ha fatto bene perché ha oscurato il senso della ricerca, della scoperta e dell’innovazione. Solo figurine di architettura.
Le norme in Italia hanno accompagnato questa triste stagione verso la sua morte definitiva. In passato c’era un rapporto responsabile tra committenza e progettista. Un rapporto che esaltava la qualità delle due figure assieme al costruttore. Un rapporto a tre virtuale fatto di conoscenze, di capacità e di competenze.
Scegliere l’architetto e l’impresa era il compito più delicato della committenza che non si avvaleva di codici e norme ma della sua esperienza culturale spesso frutto di studi, viaggi ed esperienze.
Oggi abbiamo bisogno di tabelle, griglie di valutazioni oggettivate, medie ponderali, verifiche fiscali e patrimoniali e così via. Speriamo di difendere le scelte con numeri e parametri che avrebbero lo scopo di tutelare la qualità, la distanza amicale e l’interesse personale, nella scelta di chi deve realizzare la trasformazione del paesaggio urbano e rurale.
La qualità complessiva non abita più nel progetto o nell’idea ma nelle garanzie finanziarie, nella fortuna dei ribassi, nell’intricata sterpaglia dei rapporti tra politica-amministrazione-professionisti-impresa.
Sembra che per salvarci dalla discrezionalità abbiamo buttato l’acqua sporca con tutto il bambino. Il risultato è la nascita di una nuova classe sociale: quelli che vincono concorsi e appalti (grazie alle alchimie normative e finanziarie) che hanno diritto ad esercitare in esclusiva la qualità (virtuale) dell’architettura.
Forse sarebbe meglio rieducare la committenza per farle esercitare le scelte responsabilmente. Forse sarebbe meglio chiedere requisiti finanziari e tecnici (eventualmente in avvalimento) dopo aver valutato le idee e i progetti liberamente.
Chissà quante occasioni abbiamo perso sull’altare dei requisiti preliminari? Chi non ha mai fatturato una tipologia di lavori non merita di confrontarsi con le potenti società di ingegneria? Come un gatto che si morde la coda, chi ha i numeri li avrà per sempre (monopolizzando il mercato) e gli altri stanno a guardare. Forse andrebbe fatta una seria riflessione perché la qualità del paesaggio urbano e rurale è funzione della qualità dei progetti. Poi c’è il mercato privato, sepolto da adempimenti che danno centralità a tutto tranne che alla qualità dell’architettura. Metri cubi di carte, dichiarazioni, attestazioni e certificazioni che vaporizzano l’arte.