Simone Cosimi, wired.it, 2 X 2015.
CONTROLLARE COMPULSIVAMENTE LO SMARTPHONE MINA LE RELAZIONI INTERPERSONALI E CAUSA DEPRESSIONE
LO DICE LO STUDIO SCIENTIFICO “LA MIA VITA È DIVENTATA LA PRINCIPALE DISTRAZIONE DAL TELEFONO”
Di indagini come queste se ne sono fatte tante, è vero. Alcune anche con scarsi fondamenti statistici. Nessuna, però, ha mai sfoderato un titolo tanto accattivante e significativo: “La mia vita è diventata la principale distrazione dal telefono”.
È il segnale che, nelle situazioni patologicamente più preoccupanti, il paradigma si è capovolto: non è più l’onnipresente aggeggio (lo smartphone, il tablet, lo smartwatch, quello che vi pare) a costituire una distrazione per la quale sentirsi magari pure in colpa. Tutto il contrario: è piuttosto chi ha avuto la sfortuna di capitare con quel 46,3% di partner protagonisti di phubbing a incarnare un irritante distoglimento dal display.
Che significa? Facile. Talmente tanto che un paio d’anni fa è stata appunto coniata una nuova parola – proprio phubbing – per definire l’atteggiamento, assai poco cortese, di trascurare una persona con cui si è impegnati in una qualsiasi situazione sociale (dalla camera da letto al caffè al bar) controllando compulsivamente lo smartphone. Anzi, come dimostra un primo test incluso nello studio “My life has become a major distraction from my cell phone: Partner phubbing and relationship satisfaction among romantic partners” firmato da James Roberts e Meredith David pubblicato su Computers in Human Behavior, qualcosa di peggio e più duraturo.
Il phubbing, infatti, è più diffuso di quanto si pensi. E tutti ne siamo probabilmente portatori sani. Piazzare il telefono di fronte alla propria faccia, ingombrando il campo visivo con l’interlocutore, oppure sfoderare il dispositivo – sempre che non sia già adagiato per esempio di fianco alle posate – ogni volta che la conversazione perde un po’ d’intensità e interesse. E così via. L’indagine di Roberts e David dimostra che il 46,3% degli intervistati (campione assai ristretto, 145 persone) ha dichiarato di essere stato “vittima” di simili, sgradevoli trattamenti.
Ma le sorprese arrivano da altri risultati: più di un terzo (36,6%) ha riconosciuto che non ricevere la giusta attenzione dal partner, impegnato come se non ci fosse un domani ad adorare il suo Manitou digitale, ha provocato una certa tristezza, almeno in qualche occasione, e il 22,6% ha riconosciuto che sì, quella roba ha scatenato problemi nella relazione.
“Quel che abbiamo scoperto è che quando qualcuno percepisce che il proprio partner lo sta ignorando dedicandosi al telefono, questo crea dei conflitti e conduce a più bassi livelli di soddisfazione nella relazione – ha detto Roberts al magazine della Baylor University– questi bassi livelli portano a loro volta a minore soddisfazione quotidiana e, magari, ad elevate soglie di depressione”.
Ennesima testimonianza, se ancora ce ne fosse bisogno, che l’ecosistema in cui siamo immersi sta cambiando quasi sempre senza che ce ne rendiamo conto e sta costruendo mutamenti profondissimi nel modo in cui ci relazioniamo. Un lavoro chirurgico al quale non riusciamo a contrapporre un’ecologia decente, cioè una nuova grammatica delle relazioni con questi oggetti che tante opportunità producono ma altrettanti fronti spalancano negli equilibri quotidiani.
Anche e soprattutto nelle situazioni più minimali come una cena fuori o una serata di relax sul divano: è l’essere in carne e ossa che vive o in quel momento trascorre il suo tempo con noi, dicono simili indagini, a divenire l’ingrediente sbagliato, il motivo di disagio rispetto a un flusso comunicativo ininterrotto che transita dalle protesi digitali. Conviene davvero darsi una regolata. Perché sta diventando un discorso di dignità.