Adalgisa Marrocco, Huffington Post, 17 VI 2018
“Cultura e social, ormai tutto si è infantilito. Chiamiamo ‘ragazzi’ anche gli ultratrentenni”. Intervista a Walter Siti
Parla lo scrittore, reduce dalla pubblicazione del saggio “Pagare o non pagare“. “Viviamo una crescente frattura tra losers e winners, sarà sempre più difficile ricucirla”.
“Senza conoscere il vero prezzo delle cose, finiremo per non conoscere più nemmeno noi stessi“: è questa l’opinione del critico letterario, professore universitario e scrittore Walter Siti, reduce dalla pubblicazione del saggio Pagare o non pagare (Edizioni Nottetempo), che racconta la sua visione del nostro rapporto coi soldi, la difficoltà dei riti di passaggio all’età adulta e cosa pensa della crisi, non solo economica ma anche sociale e politico-istituzionale.
Perché negli anni Sessanta e Settanta il verbo “pagare” poteva evocare sensazioni positive, mentre oggi assume una connotazione cupa?
Non so se evocasse sensazioni positive per chiunque, ma di certo le evocava per una classe sociale in particolare: il proletariato che, in quegli anni, stava vivendo la sua ascesa. Chi, come me, nel ’68 aveva vent’anni era convinto che la sua situazione sarebbe stata migliore rispetto a quella dei suoi genitori. Ottenere un posto di responsabilità e uno stipendio che garantisse autonomia economica serviva ad affermare un piccolo salto di classe, ma costituiva anche un rito di passaggio all’età adulta. Tutto questo non esiste più da quando l’ascensore sociale ha smesso di funzionare. Allo stato attuale, il nostro paese si sente gravato da un debito che, rammentatoci ogni giorno, viene spacciato per peccato capitale. Inoltre, la corruzione – che è sempre esistita, ma di cui si è iniziato a parlare maggiormente dagli anni Ottanta – ha mostrato quanto le sue radici fossero penetrate nella classe dirigente del nostro paese. Il verbo “pagare” è diventato sinonimo di “mazzetta”. Il verbo “pagare” fa pensare che ad aprire il portafoglio sia sempre chi non dovrebbe
Lei ha appena parlato di ingresso nell’età adulta: quale differenza vede tra i giovani del boom economico e quelli di oggi?
Negli anni Sessanta, un trentenne era un adulto fatto, con una stabilità famigliare e lavorativa. Si trattava di persone che si erano sganciate dai genitori per intraprendere un percorso di vita autonomo. Al giorno d’oggi, invece, le persone di 30-35 anni vengono ancora considerate ragazzi. Senz’altro, questo è dovuto all’invecchiamento della popolazione, al fatto che la disoccupazione e la precarietà ostacolano i giovani nei progetti di vita famigliare. Non a caso, anche l’età della prima maternità è slittata: se usassimo ancora il linguaggio degli anni Sessanta, la maggior parte delle mamme d’oggi sarebbero “primipare attempate”. Ho anche l’impressione che ormai tutto si sia infantilito: i social network e la cultura che viene veicolata attraverso i nuovi media tendono all’immediatezza e alla semplificazione, due caratteristiche legate più all’età infantile che non a quella adulta. La mia sensazione da settantenne è che i riti di passaggio all’età adulta abbiano assunto valenza individuale più che generazionale.
Perché oggi è diventato così difficile stabilire il prezzo delle cose?
Il consumismo imperante degli anni Ottanta e Novanta e la società dello spettacolo avevano prodotto una grande illusione: pensavamo che si potesse comprare l’infinito, che tutto fosse a portata di mano. Questo sogno d’infinitezza si è andato a scontrare con la crisi economica: i soldi, anzitutto per le classi sociali che avrebbero dovuto tentare il salto, non ci sono più. Allora a tutto questo si cerca di ovviare con la ricerca di omaggi, di promozioni, di occasioni. Le parole d’ordine della pubblicità sono rimaste le stesse: “Desidera l’infinito”, ci dicono. Ma oggi quell’infinito è impalpabile, viene vissuto in maniera irreale e i prezzi sono diventati aleatori. Ai miei tempi, era ancora valida l’idea marxista per cui il prezzo di una cosa viene stabilito in base alla quantità di lavoro impiegata per produrla. Oggi, rispetto al valore d’uso, conta molto di più il valore di scambio, lo status garantito da quel determinato oggetto. A questo si aggiunge il fatto che i prodotti vengono realizzati in luoghi che non conosciamo, da persone che non conosciamo, in condizioni di sfruttamento, magari producendo danni ecologici in paesi che andrebbero tutelati. Il danno ambientale, per esempio, dovrebbe essere contemplato quando si stabilisce il prezzo del prodotto. Deduciamo quanto sia arduo calcolare il vero prezzo delle cose allo stato attuale. E io temo che quando non si conosce il vero prezzo delle cose che ci circondano, alla fine non si riesca a conoscere nemmeno più il vero valore di noi stessi.
Lei ha usato la parola “crisi” riferendosi all’ambito economico ma, mai in come questo momento storico, il termine richiama la situazione politico-istituzionale. Cosa pensa della fase che il nostro paese si trova ad attraversare?
Credo che la crisi politico-istituzionale non sia altro che il sintomo di un male molto più radicato, i cui effetti continueranno a farsi sentire. Si è diffuso uno strano concetto di trasparenza: a trapelare sono finanche le manovre di palazzo, proverbialmente segrete. Se tutto viene reso pubblico, compresi i patti storicamente silenti, il rischio è che ogni cosa finisca per essere considerata un “inciucio” e che nessuno voglia essere additato come colui che ha ceduto al compromesso. È una casa di vetro che non si può costruire. Ho anche l’impressione che perfino le sinistre europee stiano facendo uno sforzo affinché l’oligarchia finanziaria impedisca la ribellione delle masse. È come se la democrazia avesse perso terreno in maniera graduale: da una parte c’è l’oligarchia finanziaria mondiale, dall’altra c’è chi si mette a capo delle masse, indicate come “popolo”. In questo contesto, il sistema democratico – che prevederebbe la presenza di individui informati, in grado di esercitare diritto di voto e di determinarsi – non può che essere in crisi.
Nel finale di Pagare o non pagare, viene descritta una spaccatura tra élite dominanti e popolo. Quanto la situazione attuale riflette quell’immagine?
Il mio finale è un elemento distopico, provocatorio. A ogni modo, ritengo che la forbice tra ricchi e poveri in Occidente vada allargandosi ormai da vent’anni, in maniera indipendente dai singoli governi dei singoli stati. Per usare un americanismo, viviamo una crescente frattura tra losers e winners, tra quelli che stanno sopra e quelli che stanno sotto. E, man mano, diventerà impossibile trovare un punto d’incontro tra i due mondi. Qualche giorno fa, mi è capitato sotto mano un interessante articolo sulle nuove frontiere dell’ingegneria genetica: leggevo che, grazie alle sempre maggiori conoscenze sulla struttura del DNA, si potrebbero addirittura condizionare le caratteristiche dei nascituri. Chi volesse, pagando, potrebbe scegliere colore dei capelli, degli occhi, altezza e addirittura quoziente intellettivo del bambino. Se questa prospettiva inquietante diventasse realtà, potremmo addirittura postulare la nascita di due razze: da una parte una super-razza di alti, belli e intelligenti e dall’altra una di piccoli, brutti e un po’ stupidi, magari addetti a lavori di schiavitù. In questo senso, il timore della distopia non è poi tanto peregrino.