Fausto Carioti, Libero Quotidiano, 15 VIII 2019
CINQUANT’ANNI FA
Woodstock, ma quali hippie: fu il trionfo del capitalismo.
Tutto quello che vi stanno raccontando su Woodstock è falso. I tre giorni di Peace & Love, l’età dell’Aquario e la grande fratellanza universale c’erano, certo. Ma erano il messaggio pubblicitario usato per richiamare le masse. Non furono il motivo che spinse lì gli artisti, non furono la ragione del concerto del quale oggi si celebrano i cinquant’anni e tanto meno ne sono state il lascito. La ragione furono i soldi e il lascito fu la fine della grande utopia e l’entrata del rock nel listino di Wall Street. Su quel pratone nacque una nuova categoria di consumatori, meravigliosa mucca da mungere per chi avesse trovato il modo di farlo. Il rock smise di essere eresia ribelle e diventò uno dei tanti show allestiti dal capitalismo per macinare profitti, come era naturale che fosse.
È una storia che a nessuno di quelli che la conoscono piace raccontare, perché distruggerebbe il mito grazie al quale mangiano ancora, dopo mezzo secolo. Eppure le parole e i documenti di allora ci sono tutti, riportati in decine di libri (Woodstock: Three Days That Rocked the World, di Mike Evans e Paul Kingsbury, tradotto in italiano da Hoepli, è forse il migliore). Basta metterli uno accanto all’ altro con gli occhi del profano per vedere comporsi un affresco dissacrante, diversissimo da quello rivenduto dagli agiografi.
Iniziò tutto con SteraKleen e Tegrin. Anche se oggi girano band con nomi peggiori, erano le cose più distanti dal rock e dalla rivolta giovanile che si potessero immaginare: la prima una pasticca effervescente per pulire le dentiere, il secondo uno shampoo contro la psoriasi. Assieme ad altri prodotti del genere, facevano la fortuna della compagnia farmaceutica Block Drug, appartenente alla famiglia di John Roberts. Orfano di madre, nel 1966, il giorno del suo ventunesimo compleanno, John ricevette un assegno di 400mila dollari come prima tranche dell’ eredità. Laureato all’università privata della Pennsylvania, cercava di mettere a frutto quei soldi assieme all’ amico Joel Rosenman, incontrato su un campo da golf.
L’investimento – Fu un avvocato a metterli in contatto con i produttori musicali Michael Lang e Artie Kornfeld. Costoro avevano l’ esperienza e le conoscenze giuste, ma non il denaro. La Woodstock Ventures, che avrebbe finanziato e organizzato il concerto, nacque così: grazie ai dollari di un rampollo appassionato di George Gershwin e a caccia di facili guadagni. Lui e Rosenman, dirà Lang, «non erano del giro della controcultura, ma erano brave persone. Per loro si trattò principalmente di un investimento».
Senza la loro smania d’ arricchirsi e senza le dentiere dei pensionati americani, nessuno avrebbe mai visto Jimi Hendrix strafatto suonare la versione psichedelica dell’ inno nazionale statunitense. E fu solo una delle tante contraddizioni di questa storia.
Da bravi imprenditori, pensarono innanzitutto alla pubblicità. Altro che spontaneismo. «Fu il primo evento con una promozione a livello nazionale. Non c’ era mai stato un evento musicale nazionale prima di noi. Eravamo in tutte le radio dei college e nelle radio underground del Paese», raccontò Lang. Per questo avevano assoldato un’agenzia di New York, la Wartoke, e una pierre, Rona Elliot.
Persino il nome, Woodstock, faceva parte del pacchetto promozionale. La cittadina era un vero e proprio brand: simbolo degli artisti bohemien, lì Bob Dylan aveva una villa di dodici stanze e Joan Baez, Janis Joplin ed Hendrix erano di casa. Però un concerto di qualche decina di migliaia di hippie (tanti ne erano previsti all’ inizio) era troppo persino per gli alternativi residenti di Woodstock, i quali non ne vollero sapere di ospitarlo. Identico veto mise la località vicina chiamata Wallkill. Alla fine Roberts e soci trovarono accoglienza a Bethel, distante cento chilometri dalla scelta originaria. Però continuarono a chiamarlo “concerto di Woodstock”, perché così si vendeva molto meglio. E gli abitanti di Woodstock tutt’ oggi campano alla grande grazie al turismo dei gonzi che non sanno di essere arrivati nel posto sbagliato.
Anche a Bethel spunta un personaggio che mai aveva toccato con mano chitarre elettriche e mescalina: un agricoltore 49enne di nome Max Yasgur. Il vero eroe americano della storia di Woodstock è questo ebreo alto un metro e 55, sofferente di cuore e scomparso quattro anni dopo.
Gli debbono tutto, perché fu nei campi della sua fattoria, affittati per 50mila dollari, che si tenne il concerto. Per farlo desistere, i furibondi proprietari dei terreni confinanti erano giunti a boicottare il latte delle sue mucche. «Non li volete perché non vi piace il loro aspetto, e nemmeno a me piace particolarmente. Però il punto è un altro», rispose Yasgur. «Anche se protestano contro la guerra, migliaia di soldati americani sono morti perché loro potessero fare esattamente quello che stanno facendo. Ed è l’ essenza di questo Paese».
Il contadino e le suore – Il figlio di Max, Sam, racconterà che il padre «di sicuro non aveva nulla in comune» con i 400mila figli dei fiori che invasero i 600 acri della sua proprietà. «Era un uomo che lavorava sodo. Aveva vissuto sempre in una fattoria e le sue giornate erano lunghe. Quando tutta questa faccenda iniziò, non sapeva nulla della loro cultura né della loro musica. Ma credeva davvero che le persone avessero il diritto di esprimersi e di essere lasciate in pace».
Se il buono venne da personaggi inaspettati come Yasgur e le suore e le anziane signore che, mosse a compassione, portarono cibo, acqua e medicinali a quell’ oceano di hippie sprovveduti, a deludere tutti fu la stella che avrebbe dovuto illuminarli. Bob Dylan, il menestrello, la leggenda del rock e tutto il resto, non è diventato spocchioso nel 2016, quando si è rifiutato di partecipare alla premiazione del Nobel per la letteratura: era così pure nel 1969, all’ età di 28 anni.
Abitando a Woodstock, gli organizzatori avevano sperato che lui ci fosse e chi accorse al concerto lo dava per scontato. Dylan invece non si fece vedere e anni dopo spiegò la sua scelta così: «Il festival di Woodstock fu la summa di tutte quelle stronzate. Sembrava che io c’entrassi qualcosa, con questa Woodstock Nation e ciò che rappresentava. Per me erano solo dei ragazzi che giravano con i fiori nei capelli e prendevano un sacco di acidi. Che opinione puoi avere di una cosa del genere?». In realtà – e forse il vero motivo fu proprio questo – aveva già firmato per partecipare al festival dell’ isola di Wight, in Inghilterra, pochi giorni dopo, in cambio di 50mila dollari: più di quanti gliene avessero offerti Roberts e gli altri.
Anche molti di quelli che c’erano non apprezzarono la compagnia. Pete Townshend, leader dei The Who, visse con poca poesia la propria “Woodstock esperience”: «Da buon inglese cinico e stronzo, camminavo lì in mezzo e mi veniva da sputare addosso a tutti, nel tentativo di fare capire a quella gente che niente era cambiato e niente sarebbe cambiato. E non è tutto, perché quella che credevano una società alternativa era in pratica un campo di fango mischiato a Lsd. Se quello era il mondo in cui volevano vivere, allora potevano andare tutti affanculo».
Più garbato, ma forse più devastante, il giudizio di Neil Young, che salì sul palco lunedì 18 agosto assieme a David Crosby, Stephen Stills e Graham Nash. «Che effetto ha avuto Woodstock sulla musica? Ha rappresentato il momento in cui il mercato è diventato abbastanza grande da far capire agli esperti di marketing che dovevano sfruttarlo. Ora potevano identificare un insieme di persone e “targhettizzarle” come gruppo di consumatori, e lo fecero. Usarono la musica. Quello diede via al rock ‘n’ roll utilizzato nelle pubblicità. Fu l’ effetto a lungo termine».
Droghe e adrenalina – Peraltro, sotto l’aspetto artistico il concertone fu una mezza tragedia. Tutto dipendeva da come le droghe si mescolavano con l’ adrenalina nel momento in cui cantanti e musicisti salivano sul palco, e da quanto era piovuto sulle attrezzature e gli strumenti elettrici. A Hendrix e Carlos Santana andò bene. Non ai Grateful Dead. «Non abbiamo mai suonato così male. Jerry Garcia prendeva la scossa ogni volta che toccava la chitarra», ammise Mickey Hart, il capo della band. Pessimo anche il ricordo di Young: «Woodstock fu un concerto schifoso. Una merda. Suonammo così male da vomitare».
Tanto non erano andati lì per fare l’esibizione della vita, e nemmeno per la pace in Vietnam. Sui libri contabili della Woodstock Ventures si legge che, in un’epoca in cui con 3.000 dollari compravi una signora automobile come la Ford Galaxie, Hendrix ne ricevette 18.000 per l’esibizione (fu il più pagato, e il suo agente ne pretese altri 12.000 per farlo apparire nel film-documentario), i The Who 11.200, i Creedence Clearwater Revival 10.000, Joan Baez 10.000, Janis Joplin 7.500, Santana 2.250, Joe Cocker 1.375 e così via. I 7 dollari a biglietto (18 dollari per chi voleva stare lì tutti e tre i giorni) portarono in cassa 1,4 milioni, insufficienti a coprire i 2,7 milioni di spese. Per Roberts e Rosenman i conti furono in rosso sino al 1980, quando le royalty sul film e sui dischi portarono finalmente in attivo i conti dell’impresa.